hideout

cultura dell'immagine e della parola

Dentro il pensiero di un iraniano senza terre

Dentro il pensiero di un iraniano senza terre

Avviso ai lettori: quella che state per leggere non è una recensione, è solo il flusso di coscienza che io ho immaginato nella mente di uno dei protagonisti del film, il bambino-pesce, a mio parere chiave di significato della pellicola. Pertanto mi scuso con tutti coloro che ne attendevano legittimamente una critica cinematografica.

Incrostazioni estese sul mare immobile, mentre ci accorgiamo che non siamo altro che una nave. Quest’isola di ferro la chiamerei Iran, ma in fondo non so se noi siamo ancora iraniani. Non so se ancora fuori esiste una nazione.
Siamo navi che non hanno partenza né mete, nate immobili e destinate a restare tali.
Siamo navi ma non abbiamo porti, solo tante ancore. Fuori c’è un mondo ma noi siamo sommersi in superficie e la parola “fuori” non ha alcun senso. Noi esistiamo solo dentro. Dentro questa nave. Dentro questa parte di universo che assomiglia tanto a una triste sfera di cristallo che conserva il paesaggio con la neve, e che si gira, non si rovescia per quanto è finta.
La traccia della nostra vita è ruggine e gesso e noi ci siamo restati incollati, come una bugia scritta indelebilmente sulla lavagna.

In questa pausa dalla terra, pausa dal tempo che va avanti e delle stagioni perplesse, noi siamo sempre prigionieri. Forse no, che dico? Siamo liberi. Liberi prigionieri.
L’amore non ci aspetta e l’ora della violenza è troppo lunga, quello che abbiamo non è quello che riceviamo. Mi accorgo che stiamo perdendo i pezzi, venduti al migliore offerente.
Vendiamo i nostri pezzi e ci allontaniamo dal mare. Ci stiamo affacciati su, ma sinceramente non credo che questo sia il mare. Il mare, certamente, non può essere questa servitù, come loro vogliono farci credere. Il mare non può essere solo questo golfo opaco.
Siamo geografie nascoste in mappe invisibili, un’isola che confina con la propria solitudine e che è collegata solo all’istmo della sua pazzia. Siamo bambini ma le nostre mani non sono sporche d’infanzia. Siamo clandestini nella nostra stessa terra, viaggiatori tesi all’oblò senza illusioni di movimento. Ci dondoliamo sull’idea di un migliore avvenire che possibilmente non cambi e non ci accorgiamo di essere già finiti su un’altra landa desolata. Qui, il ferro sa di polvere marcia e il mare è affondato in una baia immensa di sabbia asciutta. Ancora fermi, come navi sul deserto.
Io intanto sto correndo, lontano. Qualcosa mi dice che questa fuga mi protegge dal pericolo.
La mia passione è raccogliere pesci, per poi restituirli al mare a cui appartengono.

Sto correndo verso il mare, sto per ritornare anch’io, bambino – pesce senza mitologia, al mare che mi appartiene. Non mi inganno ora se dico che Allah è grande e che il cielo sopra di me esiste veramente; sto lasciando il mio stagno, sono pronto. Ma non sto salpando, non ho ancore, finalmente in questo nuovo mare senza navi, mi ci sto tuffando, fuori, libero.

Dedicato a tutti i prigionieri della tirannia e delle ingiustizie, iraniani e non.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»