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Dal palcoscenico al grande schermo

Dal palcoscenico al grande schermo

Il cinema da sempre ha subito una forte attrazione per il musical. Da creazioni ex novo realizzate appositamente per il grande schermo a trasposizioni di opere teatrali, la lista potrebbe essere lunghissima. Film diventati cult (si pensi solo a Jesus Christ Superstar – id., Norman Jewison, 1973), opere che magari grazie a grandi attori si sono rivelate ottime sorprese (l’Evita – id., Alan Parker, 1996 – interpretata da Madonna), altre che invece hanno dovuto soccombere sotto il peso del musical teatrale di cui hanno cercato di ricreare la magia (da Il fantasma dell’opera – The Phantom of the Opera, Joel Schumacher, 2004 – a The Producers – id., Susan Stroman, 2005).

Rent purtroppo fa parte di quest’ultima categoria. Sulla carta tutto poteva far ben sperare: un regista, Chris Columbus, con alle spalle un’ormai ventennale carriera hollywoodiana di blockbuster, un cast in buona parte ripreso da quello teatrale, un musical che a Broadway era arrivato a ben quattromila repliche. Invece le due ore di film hanno il maggior difetto di cui un musical può patire: mancano assolutamente di ritmo, sia musicale che cinematografico. La noia e la staticità regnano infatti sovrane, i momenti canori sono completamente avulsi dal contesto cinematografico, le scene corali sono talmente teatrali da apparire più di una volta ai confini del ridicolo. Sembra essere proprio il regista il tallone d’Achille del film: non ha dimostrato di possedere il benché minimo senso del musical ma solo la capacità di realizzare una pellicola di fiction in cui spesso inserire stacchetti musicali. La sensazione che il tutto sia eccessivamente artefatto, ricostruito, non vissuto e non sentito dà anche alla storia e ai suoi personaggi un senso di anacronismo e di poca veridicità.

Un gruppo di artisti o presunti tali, chi balla chi recita chi gira il film della vita in super8, che per scelta o per necessità ha scelto di vivere da bohémien o forse più realisticamente da squatter; vestiti e capigliature anni ottanta, eroina e Aids, non trovano riscontro nel clima generale del film: tranne questo gruppetto, tutto ciò che si vede intorno è tremendamente datato terzo millennio; si sente, si respira; esclusa davvero la loro piccola porzione dell’East Village, il resto di New York appare diversa, e i nostri, come estrapolati da un contesto ben più vasto e da un discorso sociale più ampio, finiscono per apparire come un gruppetto di “sfigati”, anacronisticamente legati a un concetto di vita non più applicabile nella società delle multinazionali e del profitto a tutti i costi. Non c’è la vivacità, il brio, la forza di contestazione e di denuncia che aveva il musical teatrale. E così un fastidioso sentimento di pateticità e a tratti pena attanaglia lo spettatore.

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