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cultura dell'immagine e della parola

Io sono leggenda

Io sono leggenda

Il richiamo della foresta di Gianmarco Zanrè

Esistono uomini, pochi e fortunati, in grado di viaggiare a ritroso nel tempo, e scandagliare le emozioni di un’epoca – e di una natura – ormai quasi remote per lanciarle, come un sasso sull’acqua in riva a un fiume al tramonto, verso il futuro: Terrence Malick è uno di essi.
L’ultima sua fatica – attesa, come sempre, da aspettative enormi – accoglie il retaggio delle precedenti, esplorando, attraverso gli occhi tristi e perduti del Capitano John Smith, un mondo sconosciuto, l’origine di quella che, per il regista e i suoi compatrioti, è, di fatto, la Storia.
Una Storia che diviene rapporto fra uomo e natura, coscienza sociale e di abitanti del pianeta, esplosione o evoluzione di un amore, stupore e rabbia feroce: Malick mostra tutto con la stessa sincera passione che lo lega a ogni filo d’erba, raggio di luce, soffio di vento. Non pare un caso che le prime parole insegnate da Smith alla splendida Pocahontas siano cielo, sole, luna: la nostra casa, per quanto ci si ostini a restringerne i confini, resta sempre in seno alla natura, intesa come forza primigenia e inarrestabile, motore del “Panta rei” come dell’acqua – elemento fondamentale non solo in quanto significante, ma come cifra stilistica di una pellicola fortemente “liquida” -, forza motrice della rinascita e del ciclo delle stagioni così come della vita stessa, dall’amore alla società, dalla ricerca del singolo al completamento della famiglia. Sui due piatti della bilancia, al pari delle culture anglosassone e nativa, i due protagonisti maschili, il selvaggio, inquieto John Smith e il paziente, silenzioso John Rolfe: il primo figlio di un desiderio di libertà capace di travolgere, conquistare, distruggere; il secondo, come un albero dalle radici profonde, resistente alle intemperie e saldo nei propositi, privo di uno spirito indomito ma in grado di proteggere e sostenere. Uno scontro che, per la prima volta in una saga di così ampio respiro, appare più come un incontro, quasi un monito per le culture presenti sul pianeta, e per l’uomo rispetto al pianeta stesso: siamo tutti figli della stessa terra, dello stesso cielo, della stessa Madre.

“Ma come puoi vivere, Narciso, se non hai una Madre? Senza Madre non si può amare, senza Madre non si può morire” (H. Hesse, Narciso e Boccadoro).
Come dopo la prima lettura dello struggente romanzo di Herman Hesse citato, le parole di Boccadoro bruciarono come fuoco nel cuore di Narciso, così, travolto dallo straordinario finale della pellicola, ho sentito Malick e la sua Pocahontas segnarmi nel profondo, trasmettendo una pace che solo la natura – e Witt, indimenticato protagonista de La sottile linea rossa (The thin red line, 1998) – pareva essere in grado di dare. Eppure, il segreto che la protagonista della pellicola insegue nel corso della sua intera esistenza, la chiave del “Nuovo mondo” che da titolo all’opera, pare essere proprio “figlio” di questa profonda, nativa, ancestrale maternità: con una sensibilità degna della miglior Jane Campion, Malick regala al cinema una donna di forza, dignità, bellezza quasi senza pari, alla ricerca di una maturazione e di un mondo che, ribaltando il sogno di Smith, è “vecchio”, come l’Europa e l’Inghilterra, vissuta da ospite e attrazione, conquistata senza colpo ferire, al contrario di tanti uomini nella sua terra, al suo popolo. E se il capo indiano Opechancanough va in cerca di Dio, Smith delle Indie e Rolfe della famiglia, Pocahontas riscopre l’istinto della maternità all’origine del tutto, evocando un’entità che assume molteplici forme, e illumina il suo viso grazie a un eredità in grado, più di ogni sogno e ricerca, istinto o battaglia, di porre le basi per un altro mondo, “nuovo” perchè pronto a ricominciare, e guardare ogni cosa con occhi non velati dal passato. Una lezione di Storia sulla Storia, che si ripete, è vero, ma, sorretta dallo spirito della Madre, e delle Madri, è in grado, come un fiume, di modellare ogni roccia e forma, e scorrere, cristallina o torbida di tempeste, verso il mare, prendendoci per mano, donandoci un amore che nessuno di noi, da solo, è in grado di trovare. John Smith lo ha compreso, al pari, pur se diversamente, da Rolfe. In un mondo da sempre dominato da passioni maschili, la magia di Malick apre gli occhi sull’importanza dell’altra metà del cielo: il segreto di una vita e di un mondo nuovi, forse, passa proprio dalla raggiante bellezza che la Natura irradia attraverso ogni “sua” Pocahontas.

Compromesso trascendentale di Roberto Monzani

Chi é veramente Dio? Chi é colui che detiene le chiavi dell’Eden?
Terrence Malick torna alla fonte della sua ispirazione artistica e regala un ulteriore emozionante capitolo alla storia del Grande Cinema.
Le immagini che dipingono la storia di Pocahontas (nome mai pronunciato) o Rebecca (ecco, questo sì) sono fascino puro, estraniazione.
Il tratto é esile: documentaristico di primo acchito, filologico se considerato più approfonditamente. Perché il fine non é la bellezza degli agenti naturali ma piuttosto la ricerca di una propria metafisica. E’ Infatti lì Dio, la Madre Natura che appartiene alla Terra e all’Acqua.
Ma soprattutto al Cielo.
Il cielo, verso cui punta spesso la macchina da presa nella speranza di allargare lo sguardo e di superare così, i vincoli del cinema.
Alla terra rimangono i punti di vista, le continue istantanee degli interlocutori. In questo modo il cinema di Malick ci regala il possibile sguardo di un bambino, l’innocenza svelata e tradita dallo scontro di civiltà.
Ci sono navi, e con esse, l’eterna metafora del viaggio come trasformazione.
Ci sono uomini che cercano il Nuovo Mondo. E forse lo trovano.
Ma sono uomini saturi di logiche culturalmente appartenenti alle loro Origini, da non ricompensarsene tale scoperta.
Per questo la vita é sofferenza, possesso e (luteranamente) sacrificio. L’amore, e con esso i frammenti delle vite che si incontrano, acquisisce contiguità e congruenza. Così la passione si stende sulla tavola dell’esistere e diventa compromesso.
Ed é in questo compromesso che Rebecca trova Dio.
Rebecca però, non Malick
.
Il regista la osserva scomparire nelle due dissolvenze che la consegnano alla freddezza di una terra non sua. A un nuovo viaggio e a una croce celtica che in qualche modo rimanda ad un tempo in cui Dio, forse, esisteva anche nella terra d’Albione. E alle radici salde dell’albero che compare solo negli ultimi frame.
Vita che torna alla vita. Tesi, antitesi e sintesi.
In mezzo c’é lo smarrimento.
Il silenzio dolce di un sonoro mixato in maniera da prediligere l’acqua. E con essa i suoi suoni avvolgenti e lontani.
La frammentarietà di un montaggio che sceglie spesso e volentieri di “andare a nero” pur di non dover necessariamente dividere vita e sogno.
Ed il teatro, una presenza costante con la sua espressività e con la capacità di interpretare ed anticipare.
Voci narranti che si confondono con parole pronunciate.
Di Storie, di uomini e dei
.

Curiosità
La bellissima, debuttante Q’Orianka Kilcher è stata premiata dalla National Board of Review, la più importante associazione di critici cinematografici americana, quale migliore attrice esordiente del 2005. Terrence Malick terminò la prima stesura della sceneggiatura di The new world sul finire degli anni settanta, ma vi rimise mano soltanto nel 2004, con le prime fasi di pre-produzione della pellicola.

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