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Sulla pudica nostalgia dell’amore altrove

Sulla pudica nostalgia dell’amore altrove

Da quella prospettiva da cui si gusta il sapore di un tempo che fu e oggi non è più, con la macchina da presa pregna di un candore ingenuo che riesce ben a incorniciare i personaggi come piccoli grandi eroi sentimentali, Pupi Avati ha sempre quella rara capacità di catapultarci in storie affette da un tenero senso di nostalgia e bagnate di un incantesimo che si muove tra riso e lacrime.
Come in tanti altri suoi film, anche qui ci ritroviamo ad assistere alla grandezza degli amori minuscoli, alle sue meravigliose incarnazioni da trovare non tanto in baldi cavalieri armati di spada e di coraggio, ma in dolci esseri vulnerabili, fatti di una bontà rara e attraversati, nei loro corpi comici (non a caso la scelta di attori come Marcorè o Albanese è davvero azzeccata), da un’ineffabile abbondanza di gioia amorosa che neanche la palese impossibilità di realizzazione riesce a contrarre.

E se l’ incantesimo delle sue opere riesce ancora è grazie, sì, alla bravura degli interpreti ogni volta indovinati, ma soprattutto grazie al costante pudore magistrale che Avati imprime alle sue immagini (basti pensare solo alla scena finale in cui, invece di spiare gli sposi nella loro intimità coniugale, la cinepresa esce dalla camera e lascia la privacy ai suoi personaggi).
La sua firma è chiarissima nei fotogrammi sbiaditi degli anni passati che si illuminano di altra luce, imbevute di un’ironia pungente (si pensi alla madre costretta a prostituirsi per uno spinterogeno o al prete che fuma in chiesa) e di una spiritualità che manca davvero alla nostra attualità storica.
L’unica colpa, forse, che si può attribuire ad Avati è questa sua eccessiva edulcorazione, questa ridondanza nostalgica che, annaffiata di respiro autobiografico, in certi punti straborda e sgocciola fastidiosi anacronismi.
Al di là di queste sbavature, però, non si può non giudicare positivamente questo suo sguardo dalla natura vergine e forte che come pochi ci conduce dritti alle nostre origini: di Avati, infatti, si potrà dir tutto ma, nel bene e nel male delle sue opere, di certo non si perde mai il piacere di vivere ancora come se fosse ieri.

Il soldato fuori dalla guerra, l’ennesimo cuore altrove
Un po’ solitario e poetico come il prof. Balla di Una gita scolastica (1983), impacciato e meditativo come Nello Balocchi di Il cuore altrove (2002), Giordano Ricci, interpretato da un ottimo Albanese, è forse uno dei migliori personaggi creati dall’immaginario di Pupi Avati. Con indosso quella divisa scarna e quell’ elmetto militare, egli è una sorta di ultimo soldato per cui la guerra non è mai finita, angelo custode e spettacolo per i bambini, è l’anima pia che cova un amore infinito e di cui ne vive primigenie infantili palpitazioni. Mentre Neri Marcorè qui incarna già lo stereotipo di italiano medio, approfittatore e privo di scrupoli, frutto cattivo nato dall’albero marcio della guerra, Albanese è nei panni di un personaggio immacolato, il cui cuore è fatto di una dimensione altra da quella in cui vive (è altrove).
Forse proprio per questo in un mondo che continua ad andare all’inverso, un personaggio come Giordano Ricci più che come un uomo meraviglioso da sposare, è soprattutto un malato di mente da curare.

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