Terrorismo psicologico
Sei mesi fa: buio in sala e si consuma uno dei riti che più amo nell’andare al cinema, i trailer che anticipano la prossima stagione. In venticinque secondi vedo un uomo e una donna in un aeroporto che si incontrano, chiacchierano e flirtano. “Oddio, il remake americano di Jet leg (Décalage horaire, Danièle Thompson, 2002)”, penso. Non faccio in tempo a ripescare nella memoria il nome dell’attrice francese protagonista di quel film che lo schermo si fa nero e un occhio rosso si fissa su di me. Tutto crolla come un castello di carte. Il volo dell’amore si trasforma in volo del terrore. Poi un brivido nel leggere il nome di Wes Craven in coda alle immagini. Gli elementi di interesse c’erano tutti: una commediola che avrei visto solo sotto tortura si trasforma immediatamente in un film che aspetto impazientemente. Poi, ammettiamolo: c’era un certo fascino sociologico, dopo l’11 settembre 2001, nell’immaginare un film girato durante un atto terroristico su di un aereo, diventato argomento tabù, tanto che solo Spielberg in questi anni è tornato in un terminal di aeroporto. La curiosità era alta.
Poi accade l’imprevisto. Come quando incontro un amico che non vedo da tanti anni, uno con cui ho condiviso quei momenti che serbo nella memoria; quelle ore di adolescente passate davanti alla televisione a vedere un film horror nella speranza di non dormire la notte, di farmi venire un incubo terrificante. Quell’amico, mitizzato nella memoria, è cresciuto, si è imbolsito. Camicia bianca e polsini stretti, è diventato uno dei tanti qualcuno che incontri per strada e non vedi nemmeno. Banale, quasi non lo saluto se lo riconosco. Quell’amico è Wes Craven, regista per oltre venti anni degli incubi di generazioni di ragazzini, che quasi come il collega nostrano Argento, ha ormai imboccato da tempo la via del non ritorno. Dopo qualche lampo come l’ultimo capitolo della saga di Freddy Krueger, il nostro ha saputo solo riciclarsi, tanto che l’acclamato Scream (id., 1996 – anch’esso un gran rimpasto patinato del suo cinema precedente) ha mostrato tutti i suoi limiti fin dal secondo, aberrante, episodio. Il nostro ha capito che i tempi delle vacche grasse erano finiti e ha cercato di riciclarsi come regista comico (Vampiro a Brooklyn – Vampire in Brooklyn, 1995 – con Eddy Murphy), melò (La musica del cuore – Music of the heart, 1999 – con Meryl Streep) e addirittura come romanziere con un thriller mediamente dozzinale.
Red eye è un film che delude ogni tipo di aspettativa, tutto quello che deve succedere in un thriller di serie C capita puntualmente. L’elemento sovrannaturale a cui ammiccava l’occhio rosso del trailer deve essere stato dimenticato in montaggio. Forse gli occhi rossi sono venuti al sottoscritto, non riuscendo a trattenere le lacrime per aver ritrovato per un attimo un vecchio amico, solo per capire che se ne era andato definitivamente tanto tempo fa.
A cura di Carlo Prevosti
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