Adriano Celentano è lento
L’evento Rockpolitik è finalmente andato in scena.
Dopo una settimana di spasmodica attesa alimentata da polemiche, prime pagine, autosospensioni, minacce e discussioni, il “sommo rito” officiato da Sua Santità Adriano I ha visto infine la luce del teleschermo.
Sì, sono chiaramente sarcastico. Infastidito, annoiato e sarcastico per essere precisi.
Perché dopo tutto quello che si è detto e scritto nei giorni scorsi, nulla poteva risultarmi più indigesto di quello che ho visto in prima e seconda serata su Raiuno.
L’ennesimo spettacolo fiacco e didascalico che si infarcisce di immagini scioccanti (i bimbi mutilati nei filmati, i piccoli cinesi al lavoro tra le macerie ricostruite in studio) senza preoccuparsi di problematizzarle e discuterle in modo serio. Il solito pastone amorfo dove si lasciano affogare anche le buone idee (il Bush di Crozza, gli spezzoni dei reality show usati come contrappunto a una canzone d’amore) che comunque non sono molte.
A volere ben guardare, però, una cosa ancora più indigesta la riesco anche a trovare: il coro di dichiarazioni che questa mattina ci investono da sinistra, annunciando con giubilo che ieri sera abbiamo tutti assistito a un trionfo di democrazia.
Non prendiamoci in giro: il qualunquismo non è democrazia.
Un cantante autoinvestitosi messia che sciorina una trita omelia in stile Povia sulla bellezza dell’infanzia non è un trionfo di democrazia. Le ovazioni da stadio non sono democrazia. Un giornalista televisivo ingiustamente cacciato dalla Tv di stato che si fa eleggere all’Europarlamento, salvo poi rinunciare all’impegno preso in cambio di un’ospitata in cui annuncia che tornerà a difendere il diritto all’informazione, non si avvicina neanche lontanamente alla mia idea di democrazia (egregio signor Santoro, i veri martiri danno il buon esempio, non prendono un anno di stipendio a Bruxelles per poi mollare tutto quando il vento inizia a cambiare direzione).
Soprattutto, l’invito ad ascoltare il programma ad alto volume non è democrazia. Al massimo è populismo.
D’altra parte siamo italiani, mica persone serie. Il nostro sport nazionale è il salto sul carro del vincitore, vero o presunto che sia.
Non so quanti se lo ricordano, ma la classifica della libertà di stampa che Celentano ha coraggiosamente commentato, quella in cui il nostro paese fa bella mostra di sé al settantasettesimo posto insieme alla Mongolia, era già stata mostrata in Tv.
Esattamente due anni fa, nella puntata di Raiot che segnò l’inizio dell’esilio catodico di Sabina Guzzanti.
Allora nessuno parlò di grande momento democratico; Berlusconi era ancora un leader forte e la trasmissione venne cancellata.
Ma come diceva il caro Bob Dylan: “i tempi stanno cambiando”. E dopo aver dato un’occhiata ai sondaggi che premiano il centrosinistra, nell’ottobre 2005 ci si può anche concedere una trasgressione con ventiquattro mesi di ritardo.
Buttiamo giù la maschera e parliamoci chiaro.
Rockpolitik (stando a quanto visto nella prima puntata) è solo una provocazione fuori tempo massimo, uno sberleffo al potere lanciato quando il potere è già in declino e realizzato proprio con le modalità che hanno permesso a questo potere di affermarsi: [img4]l’applauso di un pubblico in studio rigorosamente selezionato e la forza dirompente del messaggio televisivo.
E non illudiamoci, noi che abbiamo votato a sinistra, che questo programma possa giovare alla causa. È l’esatto contrario.
Come nella miglior tradizione masochista si demonizza Berlusconi in modo che a tempo debito (in campagna elettorale, possibilmente dopo l’abolizione della par condicio) lui possa dire: «Avete visto? Mi perseguitano, mi odiano, usano la Tv pubblica per infangare il mio nome! E poi accusano me di dittatura!»
Lo dico ora, in tempi non sospetti e con altre tre puntate di Rockpolitik in palinsesto: errare è umano, perseverare è diabolico.
A cura di Marco Valsecchi
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