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cultura dell'immagine e della parola

Ciàula scopre la Talpa

C’è un fiume di lacrime che scorre sotterraneo e attraversa la nostra storia televisiva.
Perché in Tv il dolore è protagonista, in forme diverse, con modalità differenti, da almeno un quarto di secolo. Dolore vero, rubato o più spesso esibito, comunque portato in scena, preso per i capelli e trascinato davanti alla lucina rossa di una telecamera accesa.
C’è una data che è uno spartiacque: 12 giugno 1981.
Il piccolo Alfredino Rampi è precipitato in un pozzo a Vermicino, vicino a Roma.
Diciotto ore di diretta, prima solo su Raidue, poi anche su Raiuno (a reti unificate), raccontano agli italiani la storia di una madre disperata, di soccorritori impotenti, di una morte piccina che commuove persino Sandro Pertini, il presidente della Repubblica, accorso sul luogo della tragedia.
Quello che doveva essere un servizio giornalistico diventa uno spettacolo dell’orrore, reso ancora più drammatico dalla certezza che si tratta di una storia vera e non di uno sceneggiato.

A distanza di ventiquattro anni si discute ancora sull’opportunità di quella diretta. C’è chi sostiene il diritto di cronaca, chi invece si appella alla sensibilità e alla deontologia professionale.
Eppure la televisione nel frattempo è cresciuta, ha consolidato il suo ruolo di medium egemone, ha guadagnato giorno dopo giorno spettatori e credibilità. E l’ha fatto grazie anche alla consapevolezza della portata spettacolare del dolore.
Come sempre è una questione di linguaggio: la Tv è il mezzo più consono alla trasmissione della sofferenza; ce la consegna in un pratico formato a quattordici pollici, non troppo invasivo, in grado di produrre il massimo del coinvolgimento senza scadere nella saturazione.
E allora può succedere che sul teleschermo prenda corpo il dolore parossistico esibito nei primi piani dei talk show, il cui massimo rappresentante è attualmente C’è posta per te, vera e propria orgia di volti paralizzati in smorfie afflitte. Il dolore telefonico di chi ogni mattina alza la cornetta per raccontare a Maurizio Costanzo, al dottor Morelli e a qualche migliaio di telespettatori le violenze subite e la depressione che ti tiene gli occhi inchiodati al suolo. Il dolore in diretta dei telegiornali, sempre più abili nel selezionare le notizie in base alla risonanza che possono avere sull’emotività del pubblico e alla disponibilità di immagini scioccanti, in ossequio al vecchio adagio per cui “desta più scalpore un cadavere ripreso a Roma che diecimila morti immaginati nel Congo”.

A tutto ciò si aggiunge, in questi giorni, il dolore grottesco che è divenuto la cifra caratterizzante dei reality show. Lo strazio che i protagonisti si lasciano infliggere pubblicamente in modo a dir poco paradossale.
Penso all’Isola dei Famosi 3 (Raidue, mercoledì, ore 21.00), dove Arianna David, ex-miss Italia balzata solo un anno fa agli onori della cronaca per la sua vittoriosa lotta contro l’anoressia, accetta di lasciarsi guardare mentre si consuma per la denutrizione e le punture degli insetti, con in sottofondo una garrula Simona Ventura che non manca di ricordarci: «Quanto sono dimagriti i nostri naufraghi!».
Penso a La Talpa (Italia1, martedì, ore 21.00), dove gli autori hanno deciso di affrontare la concorrenza alzando il tiro e proponendo sfide sempre più estreme e, a mio parere, sostanzialmente malsane: occhi di bue da ingurgitare, sabbie mobili nelle quali sprofondare, fiumi in piena per affogare. Ricorda Mai dire Banzai, ma qui c’è una cattiveria di fondo che si sopporta a fatica.

Vi assicuro che non mi fa piacere focalizzare un articolo di critica televisiva su una questione morale. Ma talvolta trovo sia inevitabile. La Tv non è un medium chiuso in se stesso, per quanto possa essere superficiale esercita una sua influenza sul nostro modo di percepire le cose. Il teleschermo ci fa apparire tutto quello che rappresenta reale, e un gioco condotto da Paola Perego – complice la scarsa alfabetizzazione all’audiovisivo – viene spesso introiettato dallo spettatore con un’intensità pari a quella di un servizio giornalistico commentato da Enrico Mentana.
La mia impressione (e se non siete d’accordo vi invito a mandare una mail in redazione e a palesarmi il vostro disappunto) è che in questo frangente la Tv ci stia rubando qualcosa.

Oggi ho rispolverato un libro che amavo molto ai tempi del liceo, una raccolta di novelle di Pirandello. La mia preferita racconta di un minatore siciliano e delle sue lunghe giornate in solfara. Il suo stato d’animo ci viene descritto così:

“Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.[img4]
Aveva preso gusto a quel saporino di sale e non se ne lasciava scappar via neppur una.
Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato da mattina a sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, che a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.”
(Luigi Pirandello, Ciàula scopre la luna)

Forse la televisione, cattiva maestra, ci sta facendo dimenticare proprio questo. Che esiste anche un dolore poetico, intimo e puro: quello che fa di noi degli esseri umani.

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