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Un passe-partout per l’aldilà

Un passe-partout per l’aldilà

Ian Softley, reduce dal successo internazionale dell’ottimo K-Pax (2001), con The skeleton key compie un altro passo in quella zona senza confini stabiliti che delimita la realtà dal soprannaturale. Ma mentre in K-Pax il confine era quello distante, forse solo immaginato, tra il nostro pianeta e quello favoleggiato da Kevin Spacey, protagonista del film, stavolta la demarcazione è molto più stretta, in quanto convogliata per il tramite di una vecchia porta che separa la quotidianità dalla magia dell’evocazione.
Una magia contraddistinta da secolari riti hoodoo, originariamente importati dagli schiavi africani, poi miscelatisi al cristianesimo, al giudaismo e alle pratiche voodoo haitiane che hanno finito per innervare il tessuto delle paludi e i bayou della Louisiana del Sud con tutta la forza della cultura popolare. Una caratteristica che per gli scettici è sinonimo di banale superstizione locale, ma che per gli studi di antropologia culturale acquista la dimensione più nobile di “melting pot magico”, pluristratificato da diverse generazioni di praticanti, magari residenti nella non distante e ben nota città di New Orleans.
Tutto ciò è esattamente alla base del film di Softley. Ed è la premessa per entrare nella pellicola del regista inglese con il piede giusto, senza fatali credulità ma anche senza chiusure mentali precostituite. Inoltre, è il modo migliore per accompagnare la convincente Kate Hudson e Caroline, il personaggio che interpreta, nel periglioso percorso che l’infermiera intraprende prima con puntiglioso razionalismo e poi con crescente abbandono verso le pratiche di magia voodoo.

Un horror-thriller molto dosato e sofisticato, quindi, dove la tensione è data non già da scene cruente di facile effetto, ma dall’accumularsi di indizi emozionali sospesi, da sospetti che trovano inattese e raggelanti conferme e da un’atmosfera angosciosa che, quando infine si risolve, chiude un ossimoro di logica irrazionalità capace di placare la tensione accumulata. Anche se in una soluzione non propriamente a lieto fine.
In un film di atmosfere come questo è chiaro che la recitazione gioca un ruolo determinante. E infatti accanto a Kate Hudson figurano due navigatissimi attori come Gena Rowlands e John Hurt, che interpretano rispettivamente Violet e Ben Deveraux, una coppia di sudisti d.o.c., con Ben semiparalizzato dopo un colpo apoplettico accusato in situazioni misteriose.
John Hurt, in tale ruolo, ha la straordinaria capacità, riservata solo ai grandissimi attori, di recitare solamente con gli occhi. Particolarità che la stessa Kate Hudson, nella conferenza stampa romana del film, ha confessato di aver ammirato e studiato proprio durante lo scorrere delle riprese. Gena Rowlands, comunque, non è da meno di John Hurt in quanto a classe interpretativa. La difficoltà, nel suo caso, consisteva nel fornire a Violet, dapprima, un’aura di donna di vecchio stampo, magari un po’ troppo conservatrice, ma comunque rassicurante. Per poi sfociare, ma per gradi e senza eccessivi picchi di tensione, nella figura negativa che ghermirà Caroline sino al colpo di scena finale. Un compito che la Rowlands svolge più che egregiamente nel corso di tutto il film, alle volte rubando la scena persino alla protagonista principale.

Nel complesso, un film che abbandona le trame gotiche, che un tempo hanno fatto la fortuna del genere horror, per abbracciare in pieno il credo narrativo di Softley: non c’è nulla di più terrorizzante dell’orrore che scaturisce di colpo dalle scene di vita normale . E, purtroppo, anche la carneficina di Londra dello scorso 7 luglio, a scapito di semplici cittadini in bus o in metrò, ai quali indirizziamo un triste e deferente pensiero, pare dargli davvero ragione.

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