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cultura dell'immagine e della parola

Push it to the limit

Push it to the limit

Breaking the waves
Il desiderio dell’uomo di confrontarsi con la natura selvaggia vive e prospera nei cuori dei coraggiosi dall’alba dei tempi, quando anche in seno alle civiltà più antiche, o in luoghi che difficilmente si sarebbero potuti pensare abitati, qualcuno cambiò il mondo a suo modo, tentando un impresa mai neppure pensata fino all’istante prima che venisse compiuta. Una storia comune, questa, per molti degli “sport estremi” praticati a ogni angolo del globo, cui neppure il surf si risparmia, e che il prode Stacy Peralta, celebrate le gesta dei pionieri dello skateboard (Dogtown and the Z-Boys – id., 2001), ci racconta nei due minuti di apertura del suo nuovo documentario, un Riding Giants completamente dedicato ai cacciatori di onde e dall’impatto più potente della fatica cinematografica precedente.
Forte di una tecnica perfezionata, una splendida colonna sonora e, non ultime, immagini capaci di far rabbrividire anche chi non è mai salito su una tavola, l’ex Z-Boy, si concentra sul percorso compiuto dalle “long boards” dalla fine degli anni ’40 ad oggi, avvalendosi degli interventi di numerosi “headliner” fra i surfisti dell’ultimo secolo e di ottimi filmati d’epoca girati fin dalla prima “migrazione” di Greg Toll e dei ragazzi californiani alla ricerca dal paradiso – e delle onde – del North Shore hawaiano.
Un documento dall’atmosfera retrò – complice anche la grafica che incornicia la pellicola – che, senza dubbio, farà storcere il naso a molti non appassionati o, più semplicemente, a chi, sedentario o meno, abbia provato con ben poco entusiasmo a “cavalcare l’onda”, qualsiasi essa sia. Eppure, se non alla pari perlomeno per associazione – così come le onde di Peha, non imponenti come a Wainea, eppure più dirompenti – chi ha amato il cinema “da cresta dell’onda” dei Mercoledì da leoni (Big Wednesday, John Milius, 1978) e Point Break (id., Kathryn Bigelow, 1991) non potrà non venire colpito dal costume da galeotto di Toll solo di fronte alla tempesta, dalla drammatica morte di Woo a Mavericks o dal salto nell’arcobaleno di Hamilton, quasi l’inseguimento della natura prescindesse qualsiasi regola e unisse mare e cielo.

Little less conversation, little more action
Da sempre il popolo del surf – così come gli alpinisti e i praticanti di ogni qualsivoglia sport estremo – si è considerato una sorta di famiglia, dai tempi in cui Toll e compagni dividevano una capanna alle Hawaii dove dormivano in dieci fino ai milioni di praticanti in tutto il mondo attualmente presenti. La cosa più incredibile, oltre, ovviamente, alle straordinarie imprese acquatiche dei protagonisti, è l’assonanza che le diverse interviste hanno nel corso della pellicola: la ricerca dell’onda, la filosofia dell’azione, più che della riflessione, il legame profondo con il mare, da ogni surfista intervistato considerato come eterno e immutabile, quasi per lui non valesse il principio universale del tempo, divengono una sorta di “sutra” recitato dagli adepti di questa strana “religione” che tende, come per i credo “ufficiali”, alla rivelazione, soltanto cambiandone le regole e ricercandola mettendo la propria vita in gioco a confronto con il grande oceano. Curioso quanto incredibile ascoltare numerosi di questi straordinari campioni della tavola giurare che il giorno della cavalcata sulla loro onda più grande sia pari a quello della nascita dei propri figli in termini d’importanza, o come Toll, ormai vecchio e non più “praticante”, descriva l’onda come la sua ragazza, la donna che gli ha dato per venticinque anni la storia d’amore più grande della sua vita, e che, immortale, ancora lo guardi, seduto sulla spiaggia, a Wainea, facendogli l’occhiolino e sussurrando: «Tu sei Greg Toll, mi ricordo di te».
Forse, in un mondo perfetto, il popolo del surf, così come per gli altri “estremi”, sarebbe considerato fucina di filosofi, pur se “al contrario”: se la scienza dell’anima, infatti, da sempre vive la sua vita nella parola e nel pensiero, queste discipline tendono a una scoperta che parte dal corpo e dall’istinto, un ritorno alla natura che potrebbe associarli ai darwiniani o ai romantici, ben consci di battersi con qualcosa di più grande, da sempre più forte, eppure in grado di dare un significato a tutta la vita attorno. «Come medico» – si ascolta nel corso dell’intervista di uno dei protagonisti di Mavericks – «i miei pazienti preferiti sono i malati terminali. Gente che conscia della fine ha eliminato dalla propria vita tutta la merda inutile. Quando cavalco un onda io mi sento come loro. Potrei morire in quello stesso istante, e quando scopro di averlo guadagnato tutto ha un significato ancora più grande».

Curiosità
Fra gli intervistati da Stacy Peralta figurano John Milius, surfista nonché regista dell’indimenticato Un mercoledì da leoni e Jerry Lopez, ex-campione di surf degli anni settanta, comparsa nella pellicola appena citata nonché co-protagonista di un altro film diretto dallo stesso Milius, quel Conan il barbaro (Conan the barbarian, 1982) che consacrò Arnold Schwarzenegger, e vide Lopez interpretare il ladro Subotai.

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