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cultura dell'immagine e della parola

Space oddity

Space oddity

Don’t panic
Non è impresa facile, per il cinema, riuscire a trasporre adeguatamente in una pellicola le sensazioni che un’opera letteraria è in grado di suscitare nei lettori: questo non per limiti effettivi della settima arte quanto, più che altro, per la profonda diversità narrativa che intercorre fra questi due mezzi di comunicazione. Eppure Jennings e il suo staff, nonostante la scarsa esperienza sul campo del regista, probabilmente aiutati dal motto della Guida e dalla presenza dello stesso autore del romanzo Douglas Adams, co-autore della sceneggiatura e scomparso durante la lavorazione della pellicola a lui stesso dedicata, hanno fatto fronte alla sfida uscendo quasi a testa alta, senza, certo, risparmiarsi un paio di lividi inevitabili.
Gran parte del merito della discreta riuscita della trasposizione va certo ricercato nel pieno rispetto avuto per la filosofia dell’opera originale: non un racconto sci-fi vero e proprio, quanto una sarabanda di personaggi e situazioni così assurde da apparire tremendamente reali e vicine a quanto di inconsueto capita nelle nostre vite ogni giorno: Arthur vede la propria casa demolita dai bulldozer di una società alle prese con la costruzione di una tangenziale, così come la popolazione della Terra assiste impotente alla distruzione del pianeta da parte dei disgustosi Vogon a causa del passaggio di un autostrada interstellare attraverso il nostro sistema solare. Più le cose cambiano, più restano uguali, recita il detto. Douglas Adams, proteggendo l’opera che gli diede notorietà, ha lavorato, a mio parere, affinché regia e produzione ne avessero cura quasi fossero autostoppisti con la fedele Guida fra le mani. Nonostante la presenza ingombrante della Disneyana Buena Vista infatti, le concessioni al grande pubblico sono poche, e grazie a un approccio in stile Pixar non si ha mai l’impressione di essere considerati parte di un audience facile o troppo ingenua, bensì quali inesperti cavalcatori di stelle cui basta tendere il libro più venduto nella storia del cosmo e attendere che la vita – e le domande – facciano il loro corso.

Life on Mars
La fantascienza in ogni sua incarnazione ha rappresentato senza dubbio uno dei bacini più prolifici cui attingere per stupire, irretire, spaventare e sconvolgere il pubblico delle sale fin dagli albori del lungometraggio, e non solo. Basti pensare alla trasmissione radiofonica che rivelò, con La guerra dei mondi, il talento da falsario di Orson Welles al pubblico americano. Il secolo appena conclusosi ha regalato grandi flop e piccole perle e attratto registi del calibro di Stanley Kubrick, George Lucas, Steven Spielberg e Andrei Tarkovskij: la scelta – certamente rischiosa, per certi versi – di affidare una produzione piccola ma importante, soprattutto per il mercato anglosassone, come questa a un giovane realizzatore di videoclip è stata probabilmente dettata dalla volontà di aggiungere freschezza a un prodotto così chiaramente figlio delle suggestioni dei favolosi seventies, senza correre il rischio che un individualità troppo spiccata dietro la macchina da presa compromettesse lo spirito voluto dall’autore del romanzo anche per la pellicola. Così il giovane Jennings dirige con apprezzabile ingenuità un racconto che pare più figlio delle interpretazioni vocali e visive della Guida, dell’esilarante robot depresso Marvin e delle creature realizzate con la consueta perizia dallo studio di Jim Henson, che gli spettatori più “vecchi” ricorderanno per il suo cult Labyrinth – Dove tutto è possibile (Labyrinth, Jim Henson, 1986). Mai invasivi, nonostante la massiccia presenza, gli effetti speciali, discretamente curati, azzeccato il cast – e bravissimo Martin Freeman -, irresistibili alcune trovate visive come il computer “Pensiero profondo” e lo schiaffeggiatore delle idee, quest’ultimo non presente nel romanzo.
Se la vita, da qualche parte nel cosmo, fosse questa, non sarebbe male, nonostante la nostra scarsa intelligenza di umani, imparare ad integrarci anche con le stelle in apparenza così lontane. Sempre sperando, prima di ogni altra cosa, di riuscire ad imparare a convivere qui sulla Terra, perlomeno prima che venga distrutta per la costruzione di una qualche autostrada.

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