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Amour fou

Amour fou

L’ordinario sconvolto
Una giovane coppia immersa nel verde della campagna inglese in campo lungo e inquadratura fissa. Lui sta per aprire una bottiglia di champagne, ma è costretto a fermarsi. Improvvisamente l’inatteso: una mongolfiera fuori controllo si sta per schiantare a terra. Ed è il caos. Lui abbandona la compagna e corre verso il pallone insieme ad altri uomini. Tutto si fa rapido e confuso: primi piani, montaggio veloce e frenetico, macchina a spalla. E alla fine un morto.
Così la prima, efficace e splendida nella sua dicotomia (anche formale, nell’alternanza tra campi lunghi e fissi e piani ravvicinati in movimento), sequenza di L’amore fatale. Un evento del tutto sorprendente come una mongolfiera impazzita in un campo di Oxford strappa Joe (un intenso Daniel Craig) dalla felice normalità sentimentale. Da un lato non è che l’inizio o la scintilla che fa precipitare il protagonista in una vicenda del tutto inedita e fuori dall’ordinario (e siamo dalle parti di Hitchcock), ma da un altro punto di vista può diventare una metafora dell’innamoramento e dell’amore. Che, improvvisamente e senza nessun preavviso, ti trascina con violenza a staccarti da terra e da tutto ciò che prima era la tua esistenza quotidiana.
Queste le due linee narrative principali, la cui intersezione continua costituirà l’ossatura dell’intero film. L’uomo ordinario alle prese di colpo e suo malgrado con una situazione straordinaria e una riflessione sul Sentimento per antomasia, la questione che da sempre impegna la cultura di ogni tempo e paese. Per citare Vinicio Capossela, Che cossè l’amor.

Da libro a film
La prima sequenza mette però in luce anche un’altra annosa questione al centro del film. Ovvero il problema dell’adattamento. Alla base della sceneggiatura c’è infatti un romanzo di uno degli scrittori inglesi più considerati e noti degli ultimi trent’anni, Ian McEwan. In particolare un romanzo che a detta del produttore («Possiede le migliori trenta pagine iniziali di qualsiasi altro romanzo contemporaneo»), dello sceneggiatore («Penso che la più grande sfida fosse catturare l’inizio adrenalinico del libro») e del regista («Una delle cose più difficili nell’adattamento di questo libro è che ha l’inizio più bello di qualunque altra cosa io abbia letto») ha un incipit di enorme impatto e quindi di difficile traduzione. Assistendo comunque al primo quarto d’ora della pellicola l’esame sembra superato. E anche lo sviluppo successivo, con la sempre più angosciante persecuzione di Jed che manda in pezzi l’intero universo del protagonista è costruita con abilità, sorretta del resto da un ottimo team di attori (da Samantha Morton a Rhys Ifans, fino al protagonista Daniel Craig quasi – sarà un caso? – un sosia del McEwan trentenne). Così come riuscito e intenso è il ritratto di un intellettuale (Joe insegna letteratura all’Università) che progressivamente, ma inesorabilmente, assiste al crollo totale del suo equilibrio e alla messa in discussione radicale della sua esistenza.

Dove però l’adattamento si fa debole, è nell’affrontare quello che è il fulcro del romanzo, ovvero la riflessione sull’amore che l’incidente e lo stesso Jed innescano nel protagonista. Difficile, senza dubbio era la sfida più ardua, tradurre i lunghi monologhi interiori del protagonista (nel film è stata necessaria la creazione di personaggi ad hoc), che alla fine rimangono la parte che meno colpisce e soddisfa. Se quindi Michell riesce perfettamente a costruire e a controllare l’evolversi sempre più angosciante sia dell’ossessione di Joe che della persecuzione di Jed che vanno a minare a fondo l’equilibrio psicologico, fisico e morale del protagonista, il film si fa molto più debole e meno convincente come illustrazione e riflessione sull’amore nelle sue tipologie. Fin troppo schematico e banale nell’opposizione tra quello omosessuale visto come ossessione e tendente alla (auto)distruzione di Jed e quello etero incarnato dalla coppia Joe-Claire, che si rivela all’opposto naturale e tendente alla stabilità. E anche le stesse teorie espresse da Joe nel corso del film (a lezione o parlando con amici e colleghi) non sono molto più illuminanti delle parole del fratello di Claire che scatenano l’ira del protagonista, ubriaco, proprio per la loro banalità, in una scena fondamentale in cui si evince l’instabilità a cui è giunto.
Al contrario delle ultime inquadrature, è il progressivo allontanarsi, tramite graduali raccordi sull’asse e la dissolvenza incrociata di immagini che ricordano la luce naturale e rassenerante dei quadri di Constable, a lasciare la coppia rinata così come l’avevamo incontrata all’inizio: immersa nella splendida campagna inglese, a serenità ritrovata. E anche l’inquadratura fissa, non per immobilità ma a testimoniare la nuova solidità della coppia, è stata riconquistata.

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