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Il superamento del mito di Frankenstein


Decidere di produrre un film partendo da libri e autori estremamente famosi ha nello stesso tempo aspetti positivi e risvolti negativi. In entrambi i casi sono in gioco la fama e la popolarità del soggetto trattato. Il problema sta nel riuscire a produrre un film che soddisfi sia gli appassionati, che già sanno tutto e hanno una radicata opinione sull’argomento, sia i profani che per la prima volta si accostano al soggetto.
Abbiamo visto gran parte del pubblico rivoltarsi contro Troy (id., Wolfgang Petersen, 2004), così come abbiamo sentito diversi tolkieniani lamentarsi delle numerose inesattezze riscontrate nella saga di Peter Jackson e accettare con poca pazienza i tagli che furono necessari per non superare le oltre sette ore di film. Per non parlare di quanti, amanti del fumetto, abbiano storto il naso guardando Spider-man secondo Raimi, perché sprovvisto dello humor proprio dell’”amichevole Uomo Ragno di quartiere”.
Eppure, anche non avendo una conoscenza particolarmente approfondita di tutti gli esempi citati, si può affermare, senza timore di sbagliare, che in nessuno dei tre film il messaggio del libro (o del fumetto) da cui furono tratti sia stato così stravolto come nel caso di Io, robot.

Il fulcro della produzione letteraria di Asimov consiste nella rivoluzione compiuta rispetto alla narrativa precedente (che potremmo far cominciare da Frankenstein, considerandolo come il primo robot organico), sconvolgendo quella successiva. I robot, infatti, sono sempre stati considerati un elemento di minaccia per l’umanità, qualcosa da guardare con sospetto e di cui diffidare, perché capace di sviluppare un pensiero autonomo e quindi di sovvertire il sistema. Asimov, al contrario, ci propone delle creature che per nessun motivo possono essere nocive alle persone. I suoi robot sono estremamente ubbidienti e privi di ogni istinto di ribellione. Anche quando all’interno del loro cervello cibernetico si sviluppano dei pensieri paragonabili a quelli umani, non germinano mai sentimenti di rivincita o di odio nei confronti dei loro creatori.

Nei suoi gialli fantascientifici Asimov ci presenta delle creature fondamentalmente buone e desiderose di compiacere il loro padrone, al quale guardano sempre con rispetto. Gli intrecci dei suoi racconti, incredibilmente affascinanti e intelligenti, nascono spesso proprio dalla volontà dei vari robot di obbedire agli ordini che hanno ricevuto, senza mai contravvenire alle tre leggi della robotica, baluardo fondamentale e intoccabile di tutta la vastissima produzione di questo autore. Divertenti, sottili e assolutamente non violente, le sue narrazioni sono una sfida all’intelligenza dell’uomo (e del lettore), che si trova di fronte a problemi offerti dalla implicita limitazione dei robot. Questi, nonostante o, forse, grazie alla loro semi perfezione, sono soggetti alla ristrettezza delle tre leggi e privi della possibilità di ricorrere al libero arbitrio.

Per quanto riguarda il lavoro di Alex Proyas, è comprensibile che per aderire agli stilemi cinematografici tipici del genere della fantascienza, il regista abbia fatto delle scelte piuttosto radicali. Come il cambiamento di Susan Calvin, robo-psicologa, che invece di essere una donna fredda, fisicamente insignificante ed estremamente intelligente, diviene una ragazza bellissima, ma non particolarmente sveglia, topos purtroppo molto ricorrente. Sono giustificabili anche le sparatorie, le fughe, gli scontri e le lotte che, se realizzate con ampio dispiegamento di effetti speciali (e qui lo sono), possono coinvolgere positivamente lo spettatore.
C’è da dire che ci saremmo aspettati una maggior cura dei dettagli da parte del regista de Il corvo (The Crow, USA, 1994) e di Dark city (Dark City, USA,1998), perché i buchi logici sono troppi anche a non volerli vedere: dati che mancano, porte sempre aperte, robot un po’ troppo distratti e strade improvvisamente deserte.

Ma il difetto più imperdonabile del film resta l’aver fornito una visione dei robot totalmente antitetica a quella di Asimov. Proyas propone dei robot violenti, che uccidono gli uomini, che si ribellano e nei quali la nascita di pensieri e di autonomia va di pari passo con la rivolta nei confronti del loro creatore. Il tentativo alla fine del film di riappacificarsi con la filosofia asimoviana è inefficace. Resta, inoltre, non risolta l’iniziativa dei robot ribelli, in quanto la prima legge (un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno) non può, per nessun motivo, essere ignorata.

In definitiva, se valutato indipendentemente, questo risulta un discreto film di fantascienza, con una trama accattivante, ben recitato e con buoni effetti speciali, ma il voler rievocare Asimov, trasfigurando così radicalmente il suo pensiero, è una scelta che si attirerà, giustamente, “l’ira funesta” dei suoi numerosissimi ammiratori.

Io, robot
, romanzo di Isaac Asimov, 1950
Io, robot, regia di Alex Proyas, 2004

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• Vai alla recensione di Io, robot di Alex Proyas

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