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Trasferta americana

Trasferta americana

di Guglielmo Maggioni *******

Nel 1981 Jim Sheridan arriva a New York dall’Irlanda, suo paese d’origine, deciso a sfondare sulla scena teatrale della Grande Mela. Segue un breve corso di cinema, fonda un teatro, per poi passare alla regia nel 1989 con l’acclamato Il mio piede sinistro, film che è candidato a cinque premi Oscar e ne vince due (tra cui Daniel Day-Lewis come migliore attore protagonista).
Proprio nella serata dell’Accademy pensa a un film autobiografico, un film che girerà soltanto nel 2002. Appunto, In America.

Il regista che ci aveva abituato a toccanti film di impegno come l’acclamato Nel nome del padre (1993) e The Boxer (1997); entrambi sulla questione irlandese e con protagonista il grande Daniel Day-Lewis, qui cambia orizzonte e, apparentemente, registro.
Lo spunto è dichiaratamente autobiografico: troppe le analogie tra la vicenda di Johnny e Sarah narrata nel film e la vita del regista.
Come il protagonista maschile, anche Sheridan è arrivato in America con moglie, figlie e una tragedia familiare: se nel film il lutto da elaborare riguarda un figlio, nel caso del regista si trattava di un fratello. Ma la sostanza non cambia poi molto.

Data la forte origine autobiografica, per la sceneggiatura il regista ha chiesto aiuto alle due figlie: è un fattore che rende intensamente autentiche le figure delle piccole protagoniste, ma senza appesantire il film.
Lo spunto intimo, infatti, non fa naufragare l’opera in un asettico dramma da camera. Sheridan non smentisce la vena di impegno politico che ha caratterizzato la sua produzione precedente, regalandogli il successo, e attraverso la vicenda di una famiglia alla ricerca di una nuova vita negli Usa dipinge un piccolo affresco di forte valenza politica.
Il condominio dove la famiglia irlandese trova rifugio è un vero e proprio campionario di drop-out statunitensi, di emarginati del sistema americano. Una moderna Ellis Island: spacciatori, prostitute, artisti afroamericani in cerca di fortuna.
Gli States diventano da un lato il luogo, nell’immaginario collettivo, del sogno, della speranza, della possibilità data a chiunque di emergere e trovare fortuna (sorte, tra l’altro, toccata nella vita al regista); ma anche il luogo dell’ingiustizia e del dramma sociale. Basti qui citare il finale, potente atto d’accusa contro un sistema sanitario garantito esclusivamente ai molto ricchi (chi può permettersi 30.000 dollari per qualche giorno di ospedale?); certamente non degno di un paese che si definisce civile.

Due nodi, quello del sogno e quello dell’ingiustizia, perfettamente esemplificati nelle due citazioni cinematografiche presenti nel film: il dramma di Tom Joad, vero e proprio emblema dei conflitti sociali statunitensi nel Furore di John Ford da Steinbeck e il simbolo del cinema come sogno, come desiderio infantile rappresentato da E.T. dell’eterno adolescente Spielberg.

Di grande impatto la sequenza del tiro al bersaglio al luna park, che riassume in pochi minuti il topos americano dell’occasione offerta a chiunque e che può cambiarti la vita. Se sei in grado di coglierla.
Straordinaria la prova delle due ragazzine, sorelle nel film e nella realtà, anche se si deve fare i conti con un doppiaggio da spot del mulino bianco.

Curiosità: Il film era già pronto nel 2002 quando è stato presentato al Festival di Toronto. Bloccato dalla Fox, è stato ripescato da Robert Redford per il Sundance, dove si è imposto garantendosi la distribuzione.
In America ha conquistato tre nomination agli Oscar 2004: Samantha Morton come migliore attrice protagonista, Dijmon Hounsou come migliore attore non protagonista e Jim Sheridan con le due figlie per la miglior sceneggiatura originale.
Premi che si aggiungono alle tredici nomination e ai due Oscar già conquistati dal regista irlandese nel corso della sua carriera.

Déja vu
di Fabio Falzone ****

In America è la storia autobiografica di Jim Sheridan (Nel nome del padre, Il mio piede sinistro) e della sua famiglia, del dolore per la perdita di un figlio e del loro tentativo di cominciare daccapo a vivere. Un racconto a più voci, scritto a sei mani con le due figlie (Naomi e Kirsten); che attinge abbondantemente dai loro ricordi personali. Il film, ambientato negli anni ’80, si apre con le parole di Christy (Sarah Bolger) accompagnate dalle riprese della sua videocamera anacronistica. Sembra evidente che la parola sia lasciata alla memoria fresca e allegra di due bambine, ma progressivamente il registro cambia, si fa corale, i centri narrativi si spostano da un personaggio all’altro aumentando il senso di partecipazione verso le singole vicende.

Il film spesso s’inceppa, a tratti i riferimenti autobiografici lo fanno sconfinare verso la ricerca dell’autosublimazione. Non è la materia del loro ricordo a essere fastidiosa, è il modo in cui questo è trattato, la continua elaborazione di un lutto che si autocompiace nel suo dolore. Gli autori non sono sufficientemente distanti da una storia difficile da raccontare, per certi versi già vista e stereotipata.

Il materiale del ricordo viene impastato con un ingrediente che vorrebbe alleggerire la drammaticità di certe scene e presentare la realtà vista con la fantasia delle bambine, un sottotesto metaforico descritto dalla lotta tra vita e morte, e dall’elemento fantasmagorico che pervade tutta la pellicola. Elemento incarnato spesso da Mateo (Djimon Hounsou); una sorta di King Kong muscoloso che non spaventa le bambine nemmeno al primo traumatico incontro, e associato dalle stesse ad ET l’extaterrestre. Un personaggio che risolve quasi da solo le sorti della famiglia, con tre frasi pronunciate col giusto pathos al momento opportuno, e un conto in banca che da solo brucia un grosso problema toccato a malapena dall’autore: la questione socio-sanitaria americana.

Ora che il film si è imposto è difficile dire se sia arte, materia di una personale esperienza o semplicemente un film già visto. In America è un insieme di queste cose. Resta l’amaro in bocca per un regista da cui ci si aspettava di più, per una pellicola iniziata bene, con un forte taglio documentaristico ripreso dalla telecamera della bambina, e che invece, nella sua seconda metà si ribalta cozzando con elementi di fantasia magica e omologandosi ad un genere che è déja vu.

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