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Le lacrime dell’amore sognato

Le lacrime dell’amore sognato

Il maestro di antiche cerimonie Pupi Avati è tornato con una grande voglia di fare cinema dopo la negativa esperienza delle crociate (I cavalieri che fecero l’impresa, 2000) per riportarci indietro negli anni 10’ in una Bologna altera e distante che già in passato è stata il set ideale per raccontare le sue storie italiane. Nella pensione Arabella la padrona (Sandra Milo) e i numerosi ospiti, rigorosamente maschili, attendono l’arrivo di un insegnante di latino e greco dalla capitale. Il professor Nello Balocchi (Neri Marcorè) è un personaggio timido, gentile d’animo, colto e dotato di buone maniere ma irrimediabilmente maldestro e impacciato nei confronti del gentil sesso. Marcorè, sotto la guida di Avati e in perfetta identità fisica con il personaggio, riesce a renderne abilmente le caratteristiche anche se a tratti l’eccessiva accentuazione della sua ingenuità lo rende poco credibile. Intorno a lui l’Avati sceneggiatore ha creato un mondo volgare e insensibile che ne fa risaltare la diversità e la purezza. Nello scarica la sua disillusione verso l’amore leggendo i versi proibiti del “suicida” Lucrezio e dello scandaloso Catullo o intonando con timbro altissimo canti ecclesiastici appena ne ha l’occasione.

Trasformare la maschera comica in quella seria

Come fece con Diego Abatantuono in “Regalo di Natale” (1986) e con Massimo Boldi in “Festival” (1996); il regista padano lancia un attore comico nel cinema “serio” e, con alcune riserve, l’esperimento sembra riuscito anche questa volta. All’inizio l’ambientazione e i personaggi appaiono troppo ingessati, con qualcosa di falso ma presto, anche grazie alla spontaneità di attori come Nino D’Angelo, nei panni di un memorabile barbiere napoletano, lo spettatore entra nella storia superando la “distanza psicologica” che a volte si prova guardando pellicole in costume. Dopo brevi e quasi surreali incontri femminili il professore si innamorerà di Angela (Vanessa Incontrada) un’affascinante e disinvolta ragazza cieca appartenente alla buona borghesia bolognese. La Incontrada, all’esordio come attrice, recita in modo naturale e credibile e il suo look volutamente moderno ha forse la funzione di avvicinare il pubblico agli altri personaggi, esteticamente e psicologicamente molto storicizzati, perché per Avati “la memoria non è mai solo un viaggio nel passato” ma un’occasione per riflettere sul presente. Quando la sequenza si impregna eccessivamente di sapore antico, irrompe sullo schermo la rossa attrice spagnola.

De Sica docet

Il regista, ricordando i consigli di De Sica, instaura con gli attori un rapporto affettuoso e attento; i due giovani protagonisti si sono così affidati a lui e hanno resistito indenni ai continui primi e primissimi piani previsti per loro nel contesto di una regia manieristica, a tratti teatrale, che alterna composizioni dell’inquadratura in cui almeno uno degli attori è a ridosso della mdp a classiche carrellate e campi/controcampi che assecondano i dialoghi. La supremazia del racconto prevale sugli altri strumenti cinematografici senza rimpianti per tecniche di regia più dinamiche basate sul montaggio esibito. Le riprese in esterni esaltano Bologna che ci appare sempre bellissima e lucente e la cui nitidezza incantata contrasta visibilmente con la cecità della protagonista. Accanto ai due attori principali da ricordare Giancarlo Giannini nelle vesti di Cesare, il greve padre di Nello che ci regala un momento altissimo di recitazione con la “poesia” sull’elezione del Papa e Giulio Bosetti, nel ruolo del padre di Angela, alla solita grande prova.

L’inganno del regista

A dispetto delle apparenze, il regista ci inganna più volte nel corso del film lasciandoci credere di essere spettatori di una storia di “amour fou” in cui il sentimento abbatte gli ostacoli sociali ed estetici o dove gli alunni di Nello al momento del suo congedo saliranno sui banchi per rendere il saluto al professore “diverso” come nel “L’attimo fuggente” di Peter Weir (1989). Invece tutto si conclude in modo ordinario, incolore senza lieto fine o gesti drammatici. Angela, infatti, sposerà il chirurgo svizzero che le ha ridato la vista. Le lacrime di Nello prima della notte che trascorrerà con lei sono un segnale esteriore di un amore vagheggiato, realizzato e quindi perduto; l’autoironia non basta più, la delicatezza d’animo che si nutre solo di sogni non riesce a contenere la sua disillusione. Consapevolmente o no, la scena finale in cui Nello ormai sarto vaticano ricuce il vestito di Angela sfiorandone la schiena è sviluppata sulla falsa riga dell’ultima sequenza di “Luci della città” (di Charlie Chaplin, 1931) quando la fioraia riconosce al tatto in Charlot il suo anonimo benefattore. Qui però Chaplin viene “capovolto”, il protagonista deve infatti declamare Catullo per farsi notare dalla ragazza la cui espressione lontana stende un velo di ambiguità sui suoi pensieri.

Vero amaro

Avati è affascinato dalla capacità di illudersi del suo protagonista ma evita un finale buonista come quelli che hanno inquinato alcuni tra gli ultimi suoi film (Il testimone dello sposo, 1998) lasciando liberamente riaffiorare parte dell’antico cinismo che lo caratterizzò negli anni ’80, anche se qui abilmente mescolato ad una poetica malinconia. Il neo presidente di Cinecittà Holding cede anzi a tratti alla sua indole crudele: la scena del ballo delle ragazze cieche tratto dai ricordi dei racconti della madre o quella in cui Nello chiede a Santa Lucia di far rimanere Angela cieca per paura di perderla ne sono solo due esempi. La storia d’amore non rimane solo vagheggiata come in “Festa di laurea” (1985) ma, al di là di ogni nostalgia, per Avati l’amore è sempre inscindibile dall’egoismo. Allora ci accorgiamo che la pellicola è più amara di quanto l’accurata messa in scena e il sorriso disarmante del professorino ci hanno lasciato presumere e lascia insinuare dentro di noi, soprattutto al termine della visione, la vena malinconica del regista. Un piccolo film d’autore, un affresco sentimentale con alcuni momenti di vera poesia, privo di messaggi impegnati, dove risalta la capacità di Avati di pensare e realizzare un cinema personale al di là delle mode e dei generi, un cinema che ha bisogno del gioco (complice) degli spettatori per spiazzarli più a fondo di quanto essi stessi credano.

NOTE: Unico film italiano in concorso al Festival di Cannes 2003

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