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Baci rubati

Baci rubati

“Il cinema è un mezzo espressivo significativo e vitale e quelli di noi che decidono di occuparsene si assumono automaticamente la responsabilità di essere altrettanto forti e vitali”. Così quarantasei anni fa Lindsay Anderson, leader di quella stagione del cinema inglese ribattezzata semplicemente Free di cui Loach si può considerare un esponente, si dichiarava in una sorta di manifesto dal titolo programmatico: “Stand up! Stand up!” ed è innegabile che il regista che da anni emoziona e scuote spettatori raccontando la Scozia contemporanea, ma anche la guerra di Spagna o la guerriglia sandinista, uno dei pochi, oggi, a dichiararsi orgogliosamente comunista, faccia un cinema significativo che sia forte e vitale.

In tempi di film in cui l’effetto speciale indora una pillola assolutamente insipida, Loach va avanti per la sua strada, che è quella di un cinema autentico e sincero, che emozioni e faccia riflettere descrivendo e analizzando realtà e persone non stereotipi e mondi di plastica che sembrano popolare tanto cinema di oggi.

Ed è ancora la Scozia a fare da sfondo all’ultima storia che l’anziano militante ha deciso di raccontarci in quest’ultimo, struggente “Sweet sixteen”. Ma non sono più maturi drop-out a essere protagonisti ma un giovane adolescente (uno straordinario Martin Compston, alla sua prova di esordio) che cerca, nello squallore del mondo della povertà e piccola delinquenza della Scozia contemporanea, una via per la serenità e la speranza che non ha mai avuto.
Un viaggio iniziatico che porterà Liam ad una più matura consapevolezza del mondo e degli affetti delle persone vicine, attraverso l’oscurità della violenza e della delinquenza, amici traditi, affetti che si rivelano non così forti e altri che si riscoprono.
Loach segue il suo eroe, con l’abituale occhio lucido e spietato di chi vuole descrivere un mondo duro senza trucchi o barare, ma anche con l’affetto e la partecipazione emotiva di chi ama profondamente i propri personaggi, così come lo spettatore, che si trova coinvolto a compiere con Liam il suo viaggio verso il superamento della sua linea d’ombra.
Emoziona e sconvolge l’autenticità tipica di Loach qui applicata al delicato mondo dell’adolescenza, che rivela una sincerità rara nel cinema, che per gli stessi temi scade facilmente nel più facile, furbo e menzognero sentimentalismo.

Anche affrontando un tema diverso dal suo solito, Loach rimane in trincea e resta fedele al cinema e allo stile a cui ci aveva abituato rigoroso e autentico, di grande emozione. A chi lo vuole relegare a esponente di una stagione politico-estetica che ha fatto il suo tempo o a regista di film banalmente sociali, dimostra come possa raccontare mondi diversi con la stessa rabbia, forza ed emozione.

Difficile non pensare ad un altro dei pochi sinceri e autentici adolescenti dello schermo, quel Antoine Doinel, descritto da Truffaut con la stessa emotiva sincerità, direttamente omaggiato dal regista inglese nel bellisimo finale: non la Francia in bianco e nero, ma la Scozia a colori, ma anche qui una spiaggia, il rumore del mare e un finale aperto.

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