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La dinastia della colpa eterna

La dinastia della colpa eterna

Si spengono le luci, scorrono i titoli di testa, qualcuno allontana con delicatezza, come si trattasse del velluto di un sipario, alcuni rami carichi di bacche (forse di assenzio, Il fiore del male?) e davanti a noi si materializza una grande villa bianca, stiamo per entrare nel regno dell’apparenza. La mdp scivola lungo il contorto corrimano di una grande scala a chiocciola per introdurci nelle viscere dell’alta borghesia bordolese del dopoguerra. La famiglia Charpin-Vasseur è in attesa del giovane Francois (Benoit Magimel) di ritorno dagli Stati Uniti. Dalla sua assenza tutto sembra rimasto immobile, senza tempo ad eccezione della nuova farmacia acquistata dal padre Gèrard (un deliziosamente detestabile Bernard Le Coq). In poche sequenze il regista ci ha già immerso nel cuore della storia che avrà per protagonisti gli esemplari di una classe sociale (la sola rimasta!) che perpetua all’infinito la propria ritualità tra impegni mondani, gite al mare e caffè nel giardino d’inverno. Claude Chabrol, 72 anni e oltre 50 film, osserva ancora con voluttà i suoi personaggi ipocriti, bugiardi, rassegnati a vivere nella finzione e sospesi tra meschinità personali e grandi colpe storiche. Guidati con leggerezza da “un intreccio semplice con personaggi complicati”, assistiamo alla messa in scena di rapporti sociali “ghiacciati” dove ogni battuta acida è assorbita con sorrisi impassibili e ogni discorso sottende un linguaggio di casta incomprensibile dall’esterno. Una borghesia che vive nell’illegalità con indifferenza e che decide di “sporcarsi” con la politica presentandosi con il sorriso falso e accattivante di Anne, interpretata da Nathalie Baye in grande forma. Tutte le tensioni della famiglia ruotano intorno all’anziana zia Line (una magica Suzanne Flon); dallo sguardo triste e dagli occhi colmi di ricordi. La zia, accusata in passato di aver ucciso un padre odioso e collaborazionista, ha una predilezione per la nipote Michèle (Mèlanie Doutey); studente di psicologia che, forse per contrappasso familiare, studia “L’universo morboso della colpa”. La complicità tra le due donne culminerà nella meravigliosa scena finale quando nella tragedia riusciranno a condividere i loro drammi trovando anche la maniera di sfogarsi in una risata liberatoria. Gli unici rapporti veri sono quelli non ufficiali; solo l’incesto, impertinente eccezione a un preciso ordine morale, può avvicinare questi personaggi decadenti all’amore; ma ogni gesto di libertà è vanificato da un destino inesorabile e tutti alla fine tornano nella grande villa scura e soffocante che provoca in loro una perversa e irresistibile attrazione. Il veleno che infesta l’aria si sublima nell’apparizione in paese di volantini che denigrano la famiglia, simili alle lettere anonime del capolavoro del 1943 di Henri-Georges Clouzot, “Il corvo”. Come sempre in Chabrol la violenza arriva nel finale, terribile, imprevista quanto inevitabile con il compito di scandire inesorabilmente la ciclicità dolorosa di una famiglia a circuito chiuso in cui il piacere e l’odio sono da sempre una questione interna. Un ”gruppo di famiglia in un interno” rappresentato dal volgare ventre di Gèrard che deborda sguaiato dalla camicia mentre è trascinato per le scale, a testimonianza che, almeno per lui, “la grande abbuffata” è finita. Una regia raffinata, un cast di altissimo livello per un cinema difficile, a tratti appesantito da un eccesso di verbosità, che rifugge i facili effetti e si concentra sui volti e sulla psicologia dei personaggi. Tratto dal romanzo “Qui est criminelle?” di Caroline Eliacheff (cosceneggiatrice del film); ignorato al Festival di Berlino, “Il fiore del male” è un noir rigoroso, in bilico tra Simenon e Hitchcock, dove il male, onnipresente, è il punto di incontro dei rancori personali e dei condizionamenti collettivi di un’intera generazione.

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