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Rinascere dimenticando

Rinascere dimenticando

Kaursmaki ci proietta in un mondo tutto suo, in quella Finlandia proletaria che aveva già raffigurato in “Nuvole in viaggio”, inedita, che più che ad un paese scandinavo sembra assomigliare ad un paese del Sud America, se non fosse per le chiome bionde e gli occhi azzurri. Un mondo fatto di poche parole, di dialoghi brevi (a volte di un’ironia inaspettata); dai quali però scaturisce una poesia delle piccole cose e dei piccoli gesti.
Kaurismaki ama i suoi personaggi e noi non possiamo far altro che seguirlo, affezionandoci al protagonista smemorato, al suo sguardo attonito con cui inizialmente affronta la situazione in cui si ritrova, ai gesti meccaninci con cui si prepara l’ennesima sigaretta, alla semplicità e all’ottimismo con cui dal nulla ritorna a vivere. Da una vicenda simile ci si potrebbe aspettare disperazione, disorientamento, ma Kaurismaki non è Cronemberg, e il suo intento non è spiazzare lo spettatore o inserirlo in una vicenda angosciosa, semmai, al contrario, ci vuole mostrare lo scorrere della vita nella sua lentezza e nella sua quotidianità, sempre con un pizzico d’ironia.
La regia è secchissima (ma non per questo priva di un taglio molto personale); in sintonia con il tono di poetica semplicità che caratterizza tutto il film: Kaurismaki non ci mostra nulla in più dello stretto necessario con uno stile che oscilla tra lo sguardo realista della macchina da presa e l’atmosfera surreale, stralunata della vicenda in sè. I movimenti di macchina sono pochi, ma ogni volto scelto, ogni interno, ogni luce possiedono una forza suggestiva che ci proietta in una dimensione particolare, suggestiva, quasi atemporale.
Perduta completamente la memoria, cancellata ogni traccia del nostro background e dell’esperienze accumulate significa non essere più nessuno oppure significa poter rivivere una seconda vita, senza disperarsi tanto per quella passata che non ricordiamo più, ed è questo atteggiamento di placida accettazione che il protagonista mette in atto, quasi a volerci dare una lezione di vita.
Sembra quasi una favola quella che il regista vuole raccontarci con questo film, una favola moderna: un uomo muore, rinasce e non possiede più nulla, è una “tabula rasa” che riaffronta il mondo per una seconda volta. Una sorta di risurrezione, di grazia ricevuta, che sembra dargli la possibilità di osservare il mondo con gli occhi dell’innocenza, quasi fosse un bambino, con un ottimismo ed una speranza che, ci è fatto intuire, probabilmente nella sua “vita precedente” aveva perduto.

Una favola surreale ****
di Francesco Mazza

In un panorama natalizio quanto mai deprimente dal punto di vista cinematografico (“Natale sul Nilo” oltre i 7 milioni d’incasso tra Natale e Capodanno, con tanto di rutti e parolacce “sdoganati” da buona parte della critica, seguito dal non meno pessimo “La leggenda di Al, John, e Jack”); “L’uomo senza passato” diventa una sorta di perla nell’oceano. Se grazie alla leggerezza del suo “tocco”, Kaurismaki fa sembrare il film una semplice, splendida favola surreale, l’opera possiede al contrario una profondità e un rigore davvero fuori dalla norma. Profondità: da buona favola, la storia possiede una morale, ma essa non è né univoca, né manichea. E’ vero, la vita nuova è migliore della precedente e i sentimenti hanno finalmente la meglio sui soldi come elemento fondativo della civiltà. Tuttavia, ogni personaggio orbita attorno ad un dramma e sembra costantemente sotto la minaccia del fallimento. Non esiste una ricetta per la felicità, sembra dirci il regista. Essa arriva per caso, forse solo con l’aiuto della Grazia ed inutile è cercare di forzare il destino.Rigore: perché l’opera possa respirare con più forza e la storia farsi favola e dunque simbolo, è necessario sgrossare tutto l’apparato formale e ricondurlo ad un gelido minimalismo. Così, i personaggi diventano impassibili, immobili, imperturbabili come tanti uomini che non ci sono e che non c’erano. Le ambientazioni sono sempre spoglie ma al tempo stesso impreziosite da una irreale fotografia. E la regia si adegua, composta com’è da inquadrature lunghe e stanche che (forse) ricordano l’ultimo Kitano. Non si devia mai da questa linea. Nemmeno quando il dialogo, sorprendentemente molto presente, agli antipodi rispetto all’ultimo film del regista, brilla di ironia surrealista.Ma il viaggio dell’Uomo Senza Passato, oltre che dentro sé stesso e la realtà, si svolge anche dentro la storia del cinema. Del resto, è anche e proprio questo che permette a Kaurismaki di mostrare il suo talento nel giocare e ribaltare i cliché più consolidati, riuscendo sempre ad essere leggero e mai forzato o presuntuoso. Si parte con il nome del protagonista, il signor M, che bendato come una Mummia sembra proprio un Mostro. Abbandonato l’Horror, si attraversano il Musical, con motivi e canzoni che si rincorrono tra un juke-box e radio da buttare, e la Commedia Sentimentale, con il suo armamentario di cenette a lume di candela, baci, lacrime e fughe. C’è spazio anche per l’alta tensione, nel caveau di una banca, e per le vecchie battaglie legali muro contro muro, comma contro comma. Ma una favola è una favola, e allora ecco l’happy end carico di sfumature sociali, con la comunità di barboni pronta ad aiutarsi e a vendicare il signor M di quei teppisti a causa dei quali (o grazie ai quali?) aveva perso la memoria. Come in un lento ma perentorio girotondo, tutto torna, tutti alla fine si ritrovano o trovano sé stessi. Se poi era meglio prima, non importa. Ciò che conta è che “L’uomo senza passato” sia un film da vedere assolutamente e che il paragone con Bresson o – sottovoce – Fellini non sia da considerarsi un azzardo.

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