Bellezza e morte
Impeccabile e raffinato.
Che un film tratto da un libro raggiunga il livello qualitativo dell’originale letterario è cosa davvero rara.
Questo vale innegabilmente per Morte a Venezia, film girato da Luchino Visconti nel 1971. Anzi, questo film è perfettamente adatto a introdurre l’opera omonima di Thomas Mann (1912); perché dà a livello visivo, emotivo e sonoro una buona idea di quello che Thomas Mann esprime con la sua abilità di usare la parola, sicuramente unica nel suo genere.
Visconti si avvicina al testo di Mann con grande umiltà.
Il suo scopo è di rendere la trasposizione filmica nella maniera più fedele, a volte fino alla pignoleria. Si pensi ai ritratti dei personaggi, al dettaglio dei ceri vacillanti nella chiesa, alla linguaccia sfoderata dal cantante napoletano, fino all’ultima immagine, quella di Tadzio, col braccio alzato come ad indicare una via.
L’ardua impresa di scegliere Bjorn Andersen, l’interprete di Tadzio spettò allo stesso regista che per l’occasione girò un documentario sulle selezioni.
Il risultato? Un adolescente polacco, di una bellezza perfetta, proprio come Mann voleva nel suo romanzo.
Rigorosa è anche la sceneggiatura che Visconti riprende fedelmente dal discorso indiretto che Mann predilige mentre la regia ha un ritmo estatico, lento e sognante.
Si percepisce la mano di un innamorato di Venezia; lo si vede dalla cura degli scorci, dalle inquadrature che richiamano ad autentici dipinti. Parlare di calligrafismo non sarebbe giusto, perché quando è necessario la macchina da presa affonda nei mali profondi della laguna, nelle calli strette e maleodoranti, nell’ umanità dolorante.
E’ l’opera che più di ogni altra ci parla delle ossessioni viscontiane: la contraddizione tra sensualità della vita e astrazione dell’arte, la vecchiaia, la decadenza, la morte. Luchino esprime una chiara idea di cosa intendeva Mann (e cosa intende lui) per la fine di un artista: l’accettazione della propria natura imperfetta, non conciliabile con la natura borghese.
L’unica libertà concessa? Il ruolo di Aschenbach: nel libro è uno scrittore, nel film un compositore interpretato da una straordinario Dirk Bogarde, capace di incredibili raffinatezze espressive.
Scena cult è senz’altro lo struggente finale della morte di Aschenbach dove la tintura di capelli scende ridicolmente sulle guance di Bogarde.
[img4] Magistrale è anche la scelta della musica, ovviamente non casuale. L’adagietto della quinta sinfonia di Mahler fu composto agli inizi del secolo, alcuni anni prima che Mann scrivesse il libro e non poteva essere estraneo al clima culturale del momento.
Il decadentismo musicale di Mahler non ha una tradizionale struttura sinfonica, assume dimensioni irregolari, per adeguarsi anche all’ambiguità dell’artista e a quella del film che raccoglie bellezza e morte, ragione e istinto, estasi e dolore.
A cura di
la sottile linea rossa ::