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Luce in mezzo all’ombra

Luce in mezzo all’ombra

Prima di stabilire se “Era mio padre” sia bello o meno, si deve rilevare con assoluta certezza come esso sia sicuramente meno bello dell’originale “Road to perdition”.
Il titolo della versione italiana è infatti frutto, oltre che di una concezione del cinema molto discutibile che delegittima lo statuto artistico dell’opera, di un ragionamento di marketing tanto miope quanto sbagliato: visto che il film esce a Natale, periodo in cui il target principale sono le famiglie, perché non cambiare l’ambiguo e politicamente scorretto “La strada per la perdizione” (o qualunque altra traduzione simile) nel più rassicurante e family-oriented “Era mio padre”? Ragionamento miope perché è chiaro a tutti che cambiando il titolo non si altera il contenuto – che, a fronte di numerosi colpi di pistola in testa e conseguenti spargimenti di sangue, non appare certo adatto alle “famiglie”- e sbagliato perché è proprio dentro quel titolo, “Road to perdition” , che si ritrova il cuore di tutta la vicenda. Ma l’adattamento italiano, a cura della “Pumaisdue”, non limita i suoi danni al solo titolo: sottotitoli inesatti e dialoghi a volte incomprensibili fanno da compagni di viaggio nel corso delle due ore del film. Se si aggiunge che neppure il doppiaggio è esente da difetti, ed era già accaduto per “American Beauty” (la voce di Paul Newman è a volte incomprensibile, ed è curioso che il doppiatore abbia lo stesso cognome della curatrice dell’edizione italiana); si ha un’idea più precisa della qualità del lavoro svolto.
Passando al film, è innegabile come esso fosse uno dei più attesi della stagione: dopo lo sfolgorante successo della sua opera prima, Mendes era atteso per la conferma, per la definitiva consacrazione a regista di primissimo livello. Come spesso accade però, molti si erano dimenticati che il successo di “American Beauty” era dovuto, molto prima che alla regia, alla sapiente sceneggiatura di Alan Ball, brillante commediografo americano, e che dunque i meriti del trentasettenne regista britannico erano tutti da verificare.
Rispetto ad “American Beauty”, la sceneggiatura di “Road to perdition” è infatti parecchie miglia indietro. L’evento da cui nasce tutta la vicenda è piuttosto esile, come forzato (oltre che banale) sembra il finale alla “Carlito’s Way”; la stessa catena di rapine alle banche messa in atto da padre e figlio da usare come strumento di pressione verso il padrino appare poco convincente, al punto che si è dovuto chiamare in causa l’autorità di Al Capone per rendere il tutto un po’ più credibile. Ma è soprattutto la generale piattezza, tipicamente yankee, a colpire in negativo. Come nei manuali didattici, la trama segue punto per punto tutte le tappe del “buon” racconto di finzione: l’incidente (la morte della madre e del fratello); l’allontanamento da casa (la fuga nella notte in macchina); il viaggio (per le strade con il gangster-padre); la prova d’iniziazione (imparare a guidare per rendere possibili le rapine); il ritorno a casa, il sacrificio (la morte del padre); la rinascita (nella casa dei contadini); la purezza conservata nonostante tutto (il ragazzo non ha mai sparato). Tutto sa di retorico, di già visto o di già letto, e dalla platea non si fa la minima fatica ad immaginare cosa accadrà nella scena successiva.
Il rapporto padre-figlio, che avrebbe dovuto costituire la storia parallela, è anch’esso abbastanza superficiale, limitandosi a qualche scambio di battute, qualche piccolo conflitto ed una divertente sequenza a episodi posta al centro del film. Troppo poco da chi aveva mostrato con rigore, precisione, cinismo e ironia il disagio e il vuoto della società contemporanea.
Tuttavia, è in questo quadro molto desolante che Mendes esprime la sua abilità. Girato interamente in ossequio alle regole del film gangster e noir anni ’30/’40, il film è una piacevolissima sfilata di quinte, focali corte, profondità di campo, silouette nere, inquadrature attraverso “qualcosa” che conferisce al film un sapore antico e allo stesso tempo avvincente. La stessa messa in scena, “frontale” come in “American Beauty”, si dimostra ottimamente curata fin nei minimi particolari, cercando disperatamente di surrogare le lacune della scenegiattura, a volte riuscendoci. In questo senso, da notare sono le atmosfere e quindi le ambientazioni: bastano due immagini e il regista restituisce l’atmosfera di uno squallido caffè americano, o di un hotel di lusso, o di un club privè che si beffa delle leggi anti-alcol. E si arriva allora alla fotografia, la cosa più bella di tutto il film, splendida sia nelle inquadrature invernali all’aperto sia negli interni illuminati appena.
Così, “Road to perdition” diventa per Sam Mendes un paradosso: in un film infinitamente peggiore di “American Beauty”, ha avuto modo di dimostrare più di quanto avesse fatto nel precedente, ha illuminato di luce esclusivamente propria un film destinato a ben altre performance. Ovviamente, questo non basta a fare del nostro “Era mio padre” un gran film, anzi, ma perlomeno permette al regista di salvare sé stesso e la sua immagine rendendoci fiduciosi per il suo prossimo impegno.

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