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Intervista a Davide Ferrario

La storia della produzione del film Dopo mezzanotte: un basso budget e una produzione indipendente che scelte comportano e che conseguenze nel mondo del mercato cinematografico?

Si tratta di avere un’idea di quello che si fa: un basso budget era necessario perché i soldi a disposizione erano pochi, la scelta di girare in digitale ci consentiva di avere una qualità molto buona con una macchina molto leggera, di avere una troupe molto piccola e di girare il film velocemente. Infatti abbiamo finito le riprese in 4 settimane.
Sostanzialmente questo significa arrivare in fondo ad un film con una grande libertà. Per esempio il film è stato girato senza sceneggiatura e questa scelta con una produzione e una distribuzione diverse sarebbe stato inattuabile. Tutti vogliono leggere le sceneggiature, io invece avevo un’idea in testa e mi fidavo di quella.
Poi una volta terminato il film era pronto per essere mostrato alle case di produzione: le prime lo consideravano bello ma di nicchia. Poi, quando il film è stato presentato a Berlino e la gente in sala rideva, ha iniziato a essere venduto all’estero e questo significava che non era più di nicchia.

Questo capita spesso in Italia: alcuni film, come per esempio Respiro (It. – Fr. 2002, Emanuele Crialese), prima snobbati in casa, vengono venduti e apprezzati molto all’estero e solo dopo considerati in Italia. Come si può spiegare questa tendenza?

Credo che in Italia ci sia un provincialismo di fondo, un problema di identità culturale degli italiani. Da almeno venti, trent’anni, cioè dal grande cambiamento degli anni ’60 e ’70, noi non abbiamo più avuto una cultura vera e propria, siamo una specie di paese colonizzato da tendenze e mode estere, non abbiamo idee interne su quello che è importante rappresentare della nostra vita. Quindi ce ne accorgiamo quando sono altri a farcelo notare ed è stato così per Nuovo cinema paradiso (It. – Fr. 1988, Giuseppe Tornatore), che prima di vincere l’Oscar in Italia era stato completamente snobbato, e Mediterraneo (It. 1991, Gabriele Salvatores) che ha avuto la stessa storia.
In Italia si aspetta sempre un professore che spieghi bene la lezione. Mi colpisce molto il fatto che negli ultimi anni tutti accorrono a vedere le mostre, mostre che poi diventano veri e propri eventi. È sicuramente una cosa positiva, ma dubito di quello che resta dopo la visita. La sensazione che ho è che la tendenza generale sia quella di consumare un evento culturale, per cui si va, si compra il catalogo e si torna a casa, ma senza un’elaborazione culturale reale di quello che si è visto.

Cosa è accaduto dopo Guardami (It. 1999, Davide Ferrario), per cui lei non riusciva più a far passare le sue sceneggiature e le sue idee?

Evidentemente i film che volevo fare io non erano ritenuti interessanti, non erano ritenuti di mercato, non erano ritenuti per bene. Volevo fare un film tratto da un libro di Cesare Battisti*, sulla lotta armata negli anni ’70, e questo mi è stato ampiamente sconsigliato, perché non è un tema che si tratta. Poi volevo fare altre due o tre cose, che non erano particolarmente cattive, ma non ne ho avuto la possibilità. Io mi rendo conto di non poter fare tutti i film come Guardami, perché finirei per mettermi in un angolo. Per esempio Ciprì e Maresco, che io considero bravi, continuando a fare quel tipo di cinema vivranno sempre più in un ghetto. Tra una cosa e l’altra, tra rifiuti e progetti che non mi interessavano sono passati quattro anni.

Infatti ora è arrivato Dopo mezzanotte, che sembra proprio un ritorno all’infanzia, del cinema e del fare cinema.

È un ripartire da zero sotto tanti punti di vista, intellettualmente come tipo di cinema e anche produttivamente. Sei mesi prima di iniziare Dopo mezzanotte io ero a New York con un progetto Miramax che poi non è partito, con le limousine, gli alberghi a downtown. E il bello del cinema è questo, che passi dal tanto al poco, dalla produzione ad alto budget al regista che in prima persona paga per fare il suo film.

La poetica della geometria e dell’organizzazione dell’universo nella teoria dei numeri di Fibonacci è un suo personale modo di concepire la realizzazione di un film?

Non direi una concezione proprio nel fare i film. Io non sono religioso, però credo che davvero il mondo abbia un suo senso matematico che noi non abbiamo ancora capito. I numeri di Fibonacci sulla Mole di Torino sono stati una tentazione troppo forte, se non ci fosse stata l’installazione di Mario Merz probabilmente non avrei inserito questo discorso nel film. Psicologicamente noi sappiamo poco di Martino [Giorgio Pasotti]. È un personaggio che si qualifica rispetto al posto in cui è, rispetto a Buster Keaton, ma è un personaggio un po’ misterioso. E mi piaceva che non fosse solo semplicemente un tipo strambo che cade per terra, uno un po’ maldestro e stupidotto, ma che avesse qualcosa di particolare nella sua mente e i numeri erano un’occasione per rendere il personaggio completo. Fibonacci è un accenno a qualcosa di profondo e importante ma non bisogna dimenticare che i suoi numeri servono per vincere al Lotto e questo è un po’ lo spirito del film intero, mettere subito in ironia anche l’organizzazione dell’universo.

I materiali d’archivio sono stati scelti con un’intenzione stilistica e di racconto o sono stati una necessità di una produzione a basso budget come la vostra?

Di solito i materiali d’archivio sono coperti da diritti, ma quelli usati nel film ne erano liberi. Tuttavia non sono stati inseriti solo per risparmiare dei soldi. La scelta è stata fatta perché abbiamo lavorato senza sceneggiatura: il film, quindi, è stato costruito mentre si girava. Il primo livello era la storia dei tre ragazzi e del custode della Mole. Man mano che questa storia si completava, avevo bisogno di un’eco, e l’ho trovata facendo rimbalzare la storia d’amore dei ragazzi in una storia d’amore di cinema. Il terzo livello è poi quello della voce fuori campo, ideata come un narratore, un Silvio Orlando accanto allo spettatore nella sala che ogni tanto commenta le vicende.
Il film è stato costruito così, perché io non credo che il cinema sia sceneggiatura, il cinema è montaggio. Io spesso sento dire frasi come “Quello era un brutto film, poi è stato salvato in montaggio”, ma la profonda natura del cinema non è la ripresa, è il montaggio. Per me girare è cercare delle immagini, raccoglierle e in un secondo tempo, in montaggio, dare loro un senso.
Questa era anche la scommessa iniziale del film: io avevo bisogno di un produttore, in questo caso me stesso, che si fidasse del regista e del suo modo di costruire una storia. nessun altro produttore avrebbe accettato il mio modo di lavorare. Infatti i produttori a cui avevo proposto l’idea del film all’inizio mi chiedevano di leggere la sceneggiatura e io non potevo accontentarli. Poi, quando hanno visto il film mi hanno detto che avrei potuto venire da loro, ma non solo con un’idea. Invece per me c’era solo quell’idea, è il mio modo di lavorare.

* Il regista si riferisce allo scrittore Battisti, attivista degli anni ’70. Fuggito dall’Italia, ora risiede in Francia e su di lui pende una domanda di estradizione presentata dal governo italiano sulla base di una condanna pronunciata più di vent’anni fa.

• Per saperne di più: www.cesarebattisti.net

• Vai alla recensione di Dopo mezzanotte

• Vai al sito del circolo del cinema di Mantova Il cinema del carbone

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