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Il figliastro della maschera

Il figliastro della maschera

Non più spumeggiante di Emiliano Catelotti

Forse è da sempre una regola non scritta del cinema, forse è l’impressione che una volta posta la parola fine nell’ultima pagina di una sceneggiatura sia difficile prendere carta e penna e ricominciare a scrivere (specialmente se la mano non è la stessa), o forse ancora si tratta di ricordi, premesse e soprattutto aspettative. Sta di fatto che il secondo episodio di The Mask delude e fallisce nel suo obiettivo dichiarato: far ridere.

Il regista punta più che altro a sottolineare, enfatizzandoli magicamente, alcuni aspetti cruciali della paternità, dallo shock (non sempre positivo) della nascita del primo figlio, alle prime esperienze in solitudine con il neonato, con la madre lontana da casa.
Il film parte a rilento, nel tentativo (vano) di costruire una trama accettabile, così per la comparsa del bambino e dei primi sorrisi è necessario attendere una buona mezzora. Una volta sprigionatasi la follia della maschera, regia e montaggio si scatenano in sequenze dalla velocità frenetica, scene ben realizzate grazie alla straordinaria potenzialità degli effetti speciali, ma che da sole non bastano a risollevare l’interesse per un film dai contenuti mediocri.
Per il protagonista (Jamie Kennedy) il confronto con “faccia di gomma” Jim Carrey (The Mask, Chuck Russell, 1994) è impietoso, non appena indossata la maschera ci fa capire quanto sia fuori luogo la sua presenza in un ruolo simile, non potendosi avvalere di quella verve unica e sensazionale che rendeva Carrey protagonista assoluto della pellicola originale.
Nel film non mancano riferimenti e collegamenti ad altri generi cinematografici, su tutti inconfondibile la parodia di L’esorcista (The exorcist, William Friedkin, 1973) nella scena che vede la testa del bambino roteare di 360 gradi, ma anche frequenti scenette pseudo comiche che impiegano l’uso dell’animazione cartoon vecchio stile, vedi Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who framed Roger Rabbit, Robert Zemeckis, 1988).

I picchi di comicità si presentano paradossalmente in presenza del personaggio meno atteso, il cane Orso, che infatti è protagonista (spesso insieme al bambino) di una serie di ingegnosi e divertenti incidenti domestici; colto infatti dalla gelosia nei confronti del neonato, il cane si appropria della maschera, riuscendo a sfruttare come nessun altro i suoi folli poteri.
Il lieto fine, è ovvio, non può certo mancare in un film come questo, peccato che anche lo scontato happy ending risulti veramente poco soddisfacente, vedendo impegnato il padre del piccolo Alvey in un lento monologo stile pane burro e marmellata, scontato e troppo riduttivo.
Una nota positiva della pellicola, se proprio se ne vuole trovare una, potrebbe essere il fatto che (almeno questo) non è assolutamente necessario aver visto il film originale da cui trae ispirazione, ma considerati i contenuti e la pochezza del messaggio trasmesso pare dubbia anche la necessità di sedersi in un cinema e spendere dei soldi per un’ora e mezza di piatta e scialba comicità.

Conflitti senza interesse di Fabrizio Amadori

Nulla di nuovo sotto il sole. Mask 2 è un film nella norma. Anche negli effetti speciali, tanto decantati dai suoi autori.
La maschera di Odino rimane la protagonista muta, misteriosa e magica, e la storia, ancora una volta, le gira attorno. Al padre di famiglia che l’ha malauguratamente indossata fa nascere un figlio che sin dai primi giorni di vita dà prova di poteri straordinari. L’uomo non voleva diventare padre, e in effetti il bebè gli fa passare dei brutti momenti.
Il rapporto tra padri e figli è sempre conflittuale, solo uno sciocco può credere il contrario. Ma lo scontro descritto nel film è chiaramente una caricatura. E una situazione imbarazzante.
Una volta uscita di scena la madre, incominciano i guai.

Il padre scopre i poteri eccezionali del figlio e ne diventa vittima, suo malgrado. Il sentimento paterno non lo abbandona mai, nonostante le titubanze iniziali e l’idea di essere punito per qualcosa. Un percorso di formazione, si potrebbe supporre? Un percorso di redenzione, sarebbe meglio rispondere.
La paternità implica sempre una colpa. Mettendo al mondo un figlio, il genitore manifesta una forma di amore. Ma anche di egoismo: “Un figlio legittimo è la continuazione dell’ego dell’uomo, e il suo affetto per il figlio non è che una forma di egoismo”, scrive Russell.
Il no iniziale del padre, quello di non avere un figlio subito dato che non ne sente la necessità, un no che si scontra con i sentimenti più genuini della moglie, va quindi inquadrato con attenzione.
La vera colpa del padre, a cui nasce un figlio solo per una specie di artificio, è quello di volersi specchiare nel bambino, spingendolo a non manifestarsi per quello che è.
Il tentativo non riesce benissimo, tenuto conto che il figlio ha la forza di un gorilla (e l’esuberanza di un personaggio da cartone animato), per non parlare poi di un netto senso di autonomia e indipendenza.

Per tutti questi motivi, la diversità del bambino ha certamente il merito di divertire, benché si presti poco a diventare oggetto di riflessione. Il bambino, infatti, non sembra soffrire, come invece ci si aspetterebbe se veramente la diversità fosse il contenuto profondo del film. Nel film a soffrire è piuttosto il padre, cioè colui che dovrebbe far la parte dell’aguzzino, l’ostinato avversario della diversità del figlio.
Quindi, il pubblico del film è spinto, dopo le prime battute, a non identificarsi con nessuno dei personaggi. Il comportamento del padre, troppo cauto e timoroso, suscita comprensione ma anche distacco. Quanto al figlio e ai suoi poteri eccezionali, a nessuno viene in mente di considerarlo una vittima. È troppo piccolo anche per un disagio di tipo psicologico. Lo scontro col padre sembra fine a se stesso. Nulla suggerisce il contrario. Finché a mostrarci le ragioni del conflitto è il padre stesso, perché il contenuto “profondo”, lungi dall’essere risolto nel tessuto narrativo, deve essere tutto spiegato e sottolineato. Suscitando in noi la sensazione di non trovarci di fronte ad un vero e proprio messaggio, bensì di fronte ad un effetto speciale, l’ultimo, piuttosto fiacco.

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