Imitation of life: il biopic e il suo pubblico
Una tendenza, un’invasione
Alexander, Ray, The Aviator, Neverland e Alla luce del sole solo per restare alle ultime settimane. Mare dentro e De-Lovely per partire dall’inizio della stagione. E, presto in sala, Kinsey o Il resto di niente. Più che una tendenza del cinema contemporaneo, sarebbe forse più corretto usare il termine invasione: si parla ovviamente dei film ispirati o tratti dalla biografie, romanzate o meno, di personaggi famosi. Una tendenza che ha sdoganato dalla ristretta cerchia di addetti ai lavori o semplici appassionati il termine inglese che identifica il fenomeno, biopic.
Un vero e proprio filone, per quantità almeno, con un suo sottofilone che ha originato il tutto, quello dedicato alle biografie musicali: prima De-Lovely su Cole Porter e ora Ray sul genio della soul music da poco scomparso, per arrivare a Beyond the sea con Kevin Spacey a interpretare Bobby Darin. Ma che ha in serbo delle vere e proprie chicche: dai due film a testa per due monumenti come Janis Joplin (con la Zellweger che se la vedrà con Pink) e Bob Dylan, all’atteso Last Days di Van Sant ispirato all’ultimo mito del rock, Kurt Cobain, fino alle biografie di Johnny Cash, Elton John (interpretato da Justin Timberlake!?), Brian Jones e Jimi Hendrix. Una vera e propria enciclopedia del rock su grande schermo.
Se il cinema ha sempre attinto alla vita di uomini, illustri o meno, fin dalla sua nascita, ora siamo di fronte a qualcosa di diverso per l’intensità del fenomeno e per i nomi coinvolti (è il caso di Stone e Scorsese).
Ma forse c’è di più. E attraverso questo boom, si può leggere una strategia che è originata da una crisi, ma anche una domanda ben precisa da parte del pubblico.
Qual è quindi questa domanda? Azzardiamo un’ipotesi.
Crisi hollywoodiana e una domanda di realtà
Da un lato c’è sicuramente una crisi dei soggetti da parte dell’intera industria cinematografica a partire da Hollywood. Del resto già in precedenza, con analoghi momenti di stanchezza e apparente esaurimento di vecchi filoni aurei, Hollywood ha assunto lo stesso atteggiamento: prima cerca e trova un nuovo filone per poi sfruttarlo fino a che non si esaurisce.
Il punto più interessante è però cercare di capire perché, in questo momento storico, il biopic possa interessare così tanto. Possa rappresentare un successo.
C’è chi ha parlato non solo di una crisi di Hollywood nell’originare nuovi soggetti, ma di una crisi del fascino narrativo dell’oggetto non solo filmico. Il pubblico, oggi, non è più così interessato all’affabulazione, al racconto puro, che è stato alla base della forma cinematografica almeno nel suo periodo e nella sua espressione più classica. Quello che oggi pare affascinare maggiormente il pubblico è la realtà (o presunta tale) e la verità, che si pensa come un concetto se non simile, affine al precedente. Forse esausti da esperienze sempre più virtuali e solitarie, quando non fino a tantissimo tempo prima le stesse erano all’opposto collettive o concrete (dal cinema che oggi si fruisce scaricato da internet e su un portatile o la musica che è passata dall’oggetto vinile agli astratti mp3), molti non sono più interessati a farsi affascinare da intrecci narrativi complessi, ma puramente di fantasia. Quello che si vuole è la vita vera. Che, nel caso del biopic, è garantita dal fatto che il protagonista sia esistito veramente. Siamo insomma di fronte a un ribaltamento completo.
Si sogna con la realtà.
Altri teorizzano che in virtù di internet, ma non solo, oggi ogni forma di comunicazione mediatica è pensata esclusivamente in termini di flusso di informazioni. Non conta che sia o meno strutturato narrativamente, ciò che conta è che io possa accedere a informazioni, più che farmi affascinare da un racconto.
Ma qui si esce dal seminato. Oltre a precipitare nell’apocalittico.
L’ispirarsi e mettere in scena un personaggio che è stato (anche) un uomo realmente vissuto, diventa garante supremo di realismo e realtà. Di verità. Due concetti che, senza stare ad addentrarci in ardui terreni filosofici, non vanno poi così di pari passo.
Si arriva al totale rovesciamento con il più costruito e fasullo “realismo” che non solo è spacciato come vero, ma che come tale è sentito dallo spettatore. Da realtà a effetto di realtà, utilizzato e creato per dare un senso realistico in un’ottica di spettacolarizzazione. Una componente, oggi, indispensabile per fare spettacolo. L’opposto dell’essere realistico. Si scambia e si accetta, quindi, un qualcosa che appare vero, ma in realtà abilmente costruito come tale, e si rifiuta la finzione che è percepita come falsa, perché poco vera. Se i due poli di fiction e realtà sono alla base di ogni discorso spettacolare, oggi il secondo sembra predominare. Ma la stessa rigida opposizione appare più sfumata, e la tendenza è quella di un’ambigua sovrapposizione, una commistione delle due categorie in cui non è sempre così semplice distinguere l’una dall’altra.
Forse siamo andati fuori tema, ma è indubbio che fenomeni come il grande successo del documentario, un genere per definizione associato alla realtà (anche quando, si veda l’ultimo Michael Moore, sono ben maggiormente costruiti narrativamente di molti film di finzione), o il grande boom dei cosiddetti reality show televisivi, sembrano andare nella stessa direzione e rispondere a una stessa esigenza del pubblico, nonché utilizzare le stesse tecniche di manipolazione e inganno del media cinema, anzi forse in modo ancora più subdola (e non può non venire in mente L’isola dei famosi).
Più che crisi, quindi, il fenomeno si spiega con una diversa domanda del pubblico. Una componente che da sempre stimola un cambiamento, per poi esserne, irrimediabilmente, manipolata.
Bilanci
Se è repentino fare un bilancio in termini di successo al botteghino dell’operazione in questione, vorrei aggiungere un’osservazione di tipo squisitamente personale e rigorosamente estetica. Al di là dei tanti prodotti principalmente commerciali, per ora i due esempi più fortemente autoriali del gruppo, Alexander e The Aviator, non sono certo brillanti e anzi rappresentano tra le più pallide opere nelle intere filmografie dei due registi. Se il film di Stone crolla sotto il peso della megalomania incontrollata del suo regista e rimane sì un brutto film ma fortemente autoriale, il caso Scorsese è una delle più grosse delusioni degli ultimi anni. Premettendo che chi scrive considera l’autore di Toro scatenato (Raging Bull, 1980) tra i più grandi registi viventi e non solo, [img4]fin dai primissimi esordi, The aviator non è solo un film assolutamente non riuscito, ma è il primo film del regista di Casinò (Casino, 1995) in cui Scorsese non c’è. O almeno non si sente, che è poi la stessa cosa. E per uno che ha sempre amato, realizzato e pensato un cinema di carne, sangue ed emozione prima di tutto il resto, è la cosa peggiore che possa esistere.
Molto più di una delusione, quasi un tradimento.
Con un paradosso: c’è il rischio che un regista che avrebbe meritato due Oscar per decennio, ma è rimasto sempre a bocca asciutta, venga finalmente premiato con un’opera anonima e vuota. Sicuramente la meno significativa della sua carriera.
Non rimane che aspettare, con trepidazione e al varco, il Kurt Cobain di Gus Van Sant. Per poi cominciare a tirare qualche conclusione.
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