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cultura dell'immagine e della parola

Cinema e infanzia: lo sguardo (s)velato

Germania anno zeroSguardo nuovo e sguardo vergine, spesso il cinema è ricorso al punto di vista infantile come metafora di purezza, innocenza, verginità.
Non semplicemente infanzia intesa come alibi (e spettatrice principale) per viaggi oltre il mondo quotidiano e reale, in un non specificato regno della fantasia, un cinema, dell’ evasione nel senso più vero del termine, bensì sguardo infantile come lente adatta a scandagliare con la profondità più vera dell’innocenza, situazioni tra le più attuali e scomode.
Ma non solo. Varco privilegiato per un nuovo reale, sostenuto da purezza di ideali, che può nutrire la speranza di un futuro migliore perché non conosce o non capisce ancora la malvagità adulta. Attraverso lo specchio dell’ipocrisia di un mondo, quello adulto, che spesso non vuole (o non può) vedere oltre la punta del proprio naso. Magari per interesse.

Si pensi al Neorealismo. Il nuovo modo di guardare al (il) mondo, è spesso modulato e si incarna nello sguardo di un bambino: se in Roma città aperta, Rossellini chiude tragicamente il film sulla fucilazione di Fabrizi osservata dalle maglie di una rete da un gruppo di bambini, a loro quindi il compito di raccogliere la testimonianza e l’ultimo appello della lotta antifascista dei grandi, ma anche la possibilità della speranza e il compito della ricostruzione, De Sica (che non a caso intitola I bambini ci guardano il film che inaugura la sua stagione di autore e regista cinematografico, oltre a essere un vero e proprio precursore) nel finale di Ladri di biciclette passa dalle lacrime della faccia del padre a quella del figlio che non piange più, ma al contrario gli prende la mano in un gesto di comprensione e compassione.
Luogo privilegiato del futuro, della speranza e del cambiamento, ma anche specchio della disillusione e dell’amara presa di coscienza dell’impossibilità del cambiamento stesso. Così il simbolo di una civiltà distrutta ha gli occhi di due giovanissimi che si arrabattano come possono nella Napoli in guerra di Sciuscià sempre di De Sica o l’abisso di abiezione e distruzione in cui è piombata la Germania alla fine della guerra è registrata da una mdp che ha il punto di vista del piccolo Edmund in Germania anno zero. È ancora la morte di un bambino, infine, a innescare l’epifania che porterà una giovane madre a prendere coscienza (della sofferenza) del mondo in Europa ’51 ancora di Roberto Rossellini.

Quindici anni dopo, anche l’altrettanto nuovo e rivoluzionario sguardo cinematografico sul mondo della Nouvelle Vague francese, figlia e allieva rosselliniana, avrà in un giovane, Antoine Doinel, il suo simbolo, il suo eroe, la sua personificazione più potente, nei 400 colpiLadri di Biciclette di Truffaut. A distanza di tre anni, un regista oltrecortina, Andrej Tarkovskij, esordisce anche lui appena trentenne con lo struggente Infanzia di Ivan in cui il raccontare la tragedia della Seconda Guerra Mondiale scegliendo un protagonista bambino costretto a (dover) essere suo malgrado adulto, non fa che amplificare e mostrare in tutta la sua assurdità l’orrore della guerra. Dall’altra parte dell’oceano, un decennio successivo, un cinema che guarda con insistenza al nuovo che si muove in Europa come quello di Steven Spielberg è stato spesso accusato o al contrario apprezzato di presentare un punto di vista strettamente infantile, sia nel senso di occhio giocoso e divertito, sia nel raccontare tragedie come la segregazione razziale o la guerra “dalla parte dei bambini”. E affidando a un cappottino rosso indossato da una bambina, l’unico tocco di colore nell’oscurità nazista di Schlinder’s List.

Proprio dal caso spielberghiano possiamo ritornare al concetto di bambino come varco, o meglio come (riprendendo un cardine della cultura occidentale alla base, a esempio, della poetica romantica inglese di un Wordsworth e prima di Blake) emblema dell’innocenza e della purezza primitiva che viene intaccata irrimediabilmente con l’entrata nel mondo adulto e civile.
Uno sguardo che proprio in virtù della sua purezza istintiva permette di comprendere e di accedere a una dimensione del tutto preclusa a coloro che hanno perso l’innocenza con la maggiore età. E di vedere l’intera realtà con occhi del tutto diversi o, ancor più radicalmente, altre realtà. Secondo quest’ottica quindi la condizione infantile non solo non è inferiore a quella adulta in quanto stadio evolutivo inferiore, ma uno stato privilegiato che “conosce” altri oggetti secondo altre prospettive e che non ha che da insegnare all’adulto. Eccoci quindi al radicale rovesciamento dei ruoli in cui, come ammonisce William Wordsworth in una poesia di due secoli fa, The Child is father of the man, o, secondo una visione meno pacificata e rasserenante all’Innocenza-Agnello contrapposto alla Tigre-Esperienza di un altrettanto celebre dittico poetico di William Blake (due opposte tendenze dell’animo umano, oltre che due stadi evolutivi).
Proprio il poeta visionario inglese è tra i primi a teorizzare come la capacita immaginativa dello stato di innocenza, caratteristico del bambino, sia la I 400 colpiprerogativa della poesia per cui essa può vedere oltre e quindi comprendere a livello più profondo il reale, anche nei suoi aspetti più terribili. L’innocenza quindi come unica possibilità di uno sguardo che sveli il male. Solo il bambino ha l’incoscienza e il coraggio di dire che il re è nudo.

Un concetto non esclusivamente occidentale: pochi, infatti, hanno raccontato e descritto in modo più poetico e profondo il tema del bambino come varco privilegiato verso un mondo straordinario e del tutto invisibile all’adulto, quanto Hayao Miyazaki.
Siamo agli antipodi, non solo geografici, dell’occidentale Spielberg: addirittura un’ altra forma linguistica come l’anime giapponese. Eppure pochi come lui hanno sviscerato il tema, ritornandoci praticamente sempre nel corso di un’intera carriera. Da Il mio vicino Totoro del 1988 al più celebre e recente La città incantata, passando per quello che è forse, almeno per chi scrive, il suo capolavoro, ovvero Principessa Mononoke (ma siamo fuori tema, sia per l’età dei protagonisti, più giovani adolescenti che bambini, sia per il fatto che qui l’intera vicenda è inserita in una dimensione altra, fiabesca, come completamente filtrata da una fantasia e da uno sguardo infantile). Specialmente nei primi due citati, i bambini protagonisti accedono a un mondo totalmente altro (che sia benevolo o maligno), che, pur nello stesso luogo, è completamente invisibile allo sguardo adulto, [img4]abitato da una popolazione e sorretto da leggi del tutto alieni dal mondo umano. Un passaggio che per il bambino è del tutto naturale: così come, quindi, per le due sorelline di Miyazaki il grande spirito delle foreste è il Totoro raffigurato sul libro di favole che hanno letto tante volte, gli alieni spielbergiani che fanno scattare le difese militari e adulte per il bambino non sono altro che pacifici e simpatici compagni di gioco.

Si può però concludere che dallo stesso humus da cui nascono le splendide fiabe di Miyazaki, giocate proprio sull’apparizione e sulla compresenza inavvertita dai grandi di un mondo “magico” nella realtà più quotidiana, di cui il bambino diviene tramite, nasce un filone esclusivamente orrorifico (dal Sesto senso a The Ring, ma già nel ben più autoriale Shining di Stanley Kubrick), in cui il mondo a cui si accede è sì una dimensione altra, ma del tutto malefica, se non proprio il regno dei morti.

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