Il mistero rivelato

C’era una volta… Sì, perché a primo avviso questa storia potrebbe dare la parvenza di una favola: una villa lussuosa ai piedi di una collina, un giovane rampollo aristocratico che gioca con i suoi amici, un paesaggio bucolico di fine Ottocento, in Alberta, che nulla ha da invidiare a quelli virgiliani. Ma spesso le apparenze ingannano! L’atmosfera assume un aspetto sempre più cupo e tetro e l’ambientazione, da opulento maniero di famiglia marchiato da oscuri segreti, muta in quello ostile e deprimente delle anguste miniere delle regioni del Canada. Il tutto avvolto da un climax che ha come vetta pura tragicità.
La trama è lineare, ma ricca di minuziosi velati particolari e spunti che inquadrano e richiamano perfettamente l’evoluzione di quel personaggio che da sempre è conosciuto come Wolverine/Logan/Arma X; una figura creata, nel lontano 1974 da Len Wein, come semplice strumento del governo canadese per frenare l’avanzata dell’incredibile Hulk e che sicuramente non aveva la pretesa o l’ambizione di divenire il più amato mutante in circolazione.
È da evidenziare come ci siano voluti quasi trent’anni per sollevare il buio sudario dell’oblio dai nostri occhi, che comunque permane sulla tormentata psiche dell’irsuto eroe canadese, e farci scoprire il tanto anelato enigma delle origini dell’artigliato Wolverine; misteri tanto longevi e di questa caratura sono infatti delle vere e proprie stelle rare in un universo dove colpi di scena, scosse innovative e repentini mutamenti sono il pane quotidiano.
Un evento tanto singolare e irripetibile, per un personaggio che, tra l’altro, vanta una testata tutta propria, non poteva che essere orchestrato da un team composto da alcuni tra i pilastri della Marvel: il trittico Paul Jenkins, Andy Kubert e Richard Isanove sotto la supervisione di Joe Quesada e Bill Jemas; artisti che per chi legge i fumetti della “Casa delle idee” non hanno davvero bisogno di presentazioni. La loro abilità narrativa nel condurre il plot di questa trilogia consiste nel realizzare, senza alcuna artificiosità, quella rivoluzione psicologica, causata dall’astrusità e dalla causticità della vita, che muta il piccolo nobile malaticcio James Howlett nell’ indomito, indistruttibile, impulsivo, solitario Wolverine; tutto ciò passando attraverso le tappe che ne evidenziano il lato ferino, grazie al contatto con gli omonimi animali boschivi, e il tipico senso dell’onore dei samurai che lo contraddistingue permettendogli di non stagnare nel mero, selvaggio istinto animale.
Le tavole sono dipinte con una maestria stilistica fuori dall’ordinario, si riconosce alle matite l’inconfodibile mano di Andy Kubert che ancora una volta supera se stesso: i colori e le immagini avvolgono a trecentosessanta gradi l’attenzione visiva del fruitore che può solo farsi rapire dalla realtà di fine Ottocento che gli si presenta davanti: una vera opera d’arte.
Per avere tra le mani un’altra saga capolavoro con il mutante canadese come protagonista non ci resta che attendere il sequel ormai di prossima uscita, ideato proprio dagli stessi autori, pronti a colpirci nuovamente con tre artigli retrattili di adamantio capitanati dall’onomatopea “snikt”.
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