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Election day – parte 2

Election day - parte 2

Complotti e manipolazioni di Giacomo Freri

Abbastanza singolare la carriera artistica di Jonathan Demme che negli ultimi anni, dopo aver avuto Hollywood ai suoi piedi con due tra i film di maggior successo di critica e di pubblico all’inizio dello scorso decennio (quasi inutile ricordarli: Il silenzio degli innocentiThe Silence of the Lambs, 1991 – e Philadelphia – id., 1993), ha voluto spontaneamente ritirarsi dal cinema mainstream, all’interno del quale ha realizzato alcuni ottimi documentari (il più recente è The agronomist (id., 2003), e due film a basso budget, rivelatisi poi due clamorosi flop: Beloved (id., 1998) e The truth about Charlie (id., 2002).
Demme torna al cinema con una produzione importante, un remake dell’omonimo film di John Frankenheimer del 1962 con Frank Sinatra (da noi uscito con il titolo di Và e uccidi, anche all’epoca non scherzavano con le traduzione dei titoli…). Gli sceneggiatori hanno aggiornato la vicenda ai giorni nostri, sostituendo ai comunisti coreani, cattivi manipolatori di menti, una potente multinazionale americana. Una mossa astuta ed intelligente che rende sicuramente attuale il film, in tempi di convivenze sempre più strette tra capitale e politica.

Se i documentari prodotti di recente attaccano frontalmente l’immagine delle multinazionali (vedi Fahrenheit 9/11 – id., Michael Moore, 2004 -, The Corporation – id., Jennifer Abbott e Mark Achbar, 2003 -, e Supersize Me – id., Morgan Spurlock, 2004), The Manchurian Candidate rimane con i piedi ben saldi nel campo della finzione cinematografica e gioca molto di più su allusioni e ammiccamenti, senza esporsi ad accuse esplicite o a riferimenti diretti alla realtà.
Partendo infatti dal presupposto che l’idea di fondo è totalmente fantascientifica, il film si configura come una convincente metafora della condizione di spaesamento dell’uomo all’interno del sistema politico e mediatico contemporaneo. Il film di Demme risulta, in questo senso, molto più distante dalla maggior parte delle pellicole sulla politica e i suoi giochi di potere di quanto non possa sembrare a un primo impatto.
Il percorso che compie il protagonista si configura come una progressiva presa di coscienza di coloro i quali vogliono raggiungere i vertici del potere e del controllo politico del paese. I suoi ricordi e la sua mente sono stati manipolati. Le uniche cose in cui può credere, su cui può fare affidamento sono la sua razionalità e i suoi ideali. Ci troviamo, quindi, di fronte alla lotta di un singolo (portatore di valori) contro qualcosa di più grande di lui, un tema da sempre caro al cinema americano.

Demme è un ottimo regista e sa come creare situazioni di tensione e, in questo caso, è anche bravo a non rimanere troppo vincolato ai cliché del genere concentrandosi soprattutto sulla vicenda umana e psicologica del suo protagonista.
Non mancano frecciate al mondo dell’informazione televisiva, che sembra scivolare sempre più nel campo dell’intrattenimento (il cosiddetto infotainment), e al mondo della politica, divenuto spettacolo da baraccone. Demme, a tal proposito, gioca molto con l’ibridazione dei linguaggi, lasciando spazio sullo schermo ai notiziari e alle breaking news di una fantomatica emittente d’informazione televisiva (CNN? FOX?), sottolineando il divario esistente tra un mondo politico tutto sorrisi e buoni propositi che ci viene dai media e un mondo politico popolato da pescecani quale in realtà si rivela essere dietro le quinte.

Un cinema che cerca, insomma, di interpretare e rielaborare le ansie e gli interrogativi del nostro tempo, (pre)figurando una realtà in cui il potere delle multinazionali e del capitale è divenuto preponderante e sopraffattore di ogni capacità decisionale del singolo. Come dire: teniamo sempre gli occhi aperti e non diamo mai per scontato quello che succede intorno a noi come pure quello che che ci viene mostrato.
Anche, e soprattutto questo, dev’essere il compito del cinema.

Curiosità

Per garantire il massimo dell’autenticità riguardo ai temi della manipolazione dei ricordi e il controllo della mente, Demme si è avvalso della consulenza del dottor Jay Lombard, neurologo comportamentale.

Avidità, ambizione e verità di Fabrizio Amadori

Stati Uniti, futuro prossimo. In un’epoca confusa come la nostra, dove dominano i cloni e i robot, e gli uomini sono in pericolo, ecco un nuovo scenario possibile. Gli americani hanno appena votato e subito si prospetta loro l’idea (solo televisiva?) di un presidente fantoccio. Controllato da una lobby potente di industriali, che gli ha “ficcato” un micro-computer nel cervello, il giovane rampollo di una potente famiglia, presunto eroe di guerra, lanciato nella corsa al potere, nasconde dentro di sé un segreto inconfessabile. A poco a poco, grazie all’aiuto del suo ex comandante (Denzel Washington), riesce a far riemergere la verità.
La sua importantissima medaglia al valore militare è stata programmata a tavolino da un gruppo di affaristi senza scrupoli, con lo scopo di spalancargli le porte del successo. Artefice principale, l’ambiziosissima, ricca e ambigua madre senatrice. Lo sfondo è dato dalla guerra irachena, che mostra di essere usata da pretesto: un po’ come nella realtà, quello che conta è il potere in America.

Il giovanotto, che parte come candidato alla vicepresidenza, dopo aver battuto un vecchio concorrente in cerca di guai, è suo malgrado al centro di vicende di cui è insieme beneficiario e vittima: tale ambiguità, in effetti, a causa della naturale aspirazione al potere, rimane viva sino all’apisodio eclatante del finale (si tratta dell’ultimo atto di un percorso di formazione). Quel giovane rampollo viene sospettato di spacciarsi per quello che non è, un eroe, ma la realtà è ben diversa. Si tratta di un film sull’illusorietà delle apparenze? Anche: è proprio quando il giovane scopre di non essere un eroe che dimostra di esserlo. Metafora di una nazione che si scopre forte, dopo essere apparsa debole.

Ma quando uno applica una simile chiave di lettura, comprende che è insufficiente. Nel film esce fuori l’idea che l’America ha di se stessa, un’immagine da (tardo) impero romano. Rispecchia essa la realtà? L’Iraq è un pretesto e serve soprattutto a far riflettere sulla situazione reale degli Stati Uniti: si tratta di una situazione di grandezza, ma non solo. La grandezza infatti, soprattutto dopo il crollo delle due Torri, può rivelarsi un fattore di debolezza. La conclusione è una mancanza di punti di riferimento sicuri e un finale da tragedia greca. Alla fine un eroe spunta fuori, anche se muore con la storia: non si tratta di cancellare il tipico ottimismo americano, bensì di complicarlo e di metterlo al passo coi tempi, col risultato di somministrare massicce dosi di dionisiaco ad una cultura dominata da tempo – e in modo suggestivo – dall’apollineo.

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